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La paura dei fantasmi

La paura dei fantasmi

Mamma mi ha detto di pensare ad una storia da raccontare a papà quando tornerà. Sono passate ore da quando è uscito stamattina e ora il sole è quasi scomparso sotto l’orizzonte. Vorrei poter prendere il sole per mano e aiutarlo a non annegare nel mare della notte. Se potessi farlo, papà avrebbe ancora un po’ di luce per tornare. Però posso solo sperare che questi raggi arancioni resistano ancora un po’, giusto in tempo per farlo arrivare qui. Spero però che non torni proprio ora, non ho ancora pensato alla mia storia. Non so perché mamma voglia che racconti qualcosa, qui sono tutti così tesi. Almeno avrò qualcosa da fare, qualcosa per tenermi occupato.

Non so proprio cosa inventarmi. Solitamente avrei tante cose da dire su quello che succede a scuola. Il maestro che ci ha spiegato un’operazione nuova, il mio compagno di classe che mi ha raccontato una barzelletta, gli uccelli che ho visto fuori dalla finestra. Ma sono settimane che non vado più a scuola. Eppure avrei dovuto fare la quarta elementare, chissà ora quando mi ci faranno tornare. Non mi sarei mai aspettato di dirlo, ma vorrei tanto stare di nuovo tra i banchi, anche se poteva essere noioso. Qui invece è tutto noioso. Il palazzo Barberini di Palestrina non ha proprio niente di divertente. Ci sono tante cose vecchie che io non capisco. Il maestro diceva che la storia era importante, però vederla tutti i giorni mi sembra proprio eccessivo. Alcune statue sono belle e all’inizio mi facevano sentire come un principe nel suo castello. Però i principi hanno delle responsabilità e con tutte le esplosioni che sento, preferisco non avere nessuno da gestire. Per passare il tempo ho provato anche a contare le tessere del mosaico tanto famoso che è qui, ma perdo sempre il conto dopo sessanta. Rappresenta un fiume che, mi ha detto mamma, si trova in Antico Egitto, dove nuotavano i faraoni. Ci sono le barche, gli animali, anche i coccodrilli, ma ormai lo conosco a memoria. Sono sicuro che il maestro si arrabbierebbe se gli dicessi che mi sto annoiando a stare al museo. Però forse si arrabbierebbe di più con tutti quelli che accendono i fuochi e rovinano i reperti. Anche papà l’ha fatto ogni tanto, ma io non glielo dirò.

Vedo solo la testolina del sole fare capolino sulle case, o quel che ne rimane, e io ancora non ho la mia storia. Devo assolutamente pensare. Della scuola non posso dire nulla purtroppo. Se solo i miei amici dormissero anche loro qui nel palazzo, sicuramente mi aiuterebbero. Loro hanno trovato casa fuori da Palestrina. Vorrei essere arrabbiato, forse un po’ lo sono, ma soprattutto vorrei essere con loro. Forse dove sono loro non si sentono le esplosioni assordanti che fanno male alle orecchie. Forse loro non tremano come me quando nessuno accende un fuoco. Forse loro possono stare vicini alle finestre senza paura che i vetri si frantumino per gli scoppi. Ma io sono qui, nel palazzo in cui non volevo mai entrare.

Ecco! La storia perfetta! Questo palazzo è pieno di fantasmi, nonno mi raccontava sempre le loro storie. Spero solo che i miei genitori non si spaventino dopo averla sentita. Papà sicuramente non lo farà, solo i più coraggiosi escono fuori, gli altri hanno troppa paura. Mamma però potrebbe. Non dorme quasi mai ultimamente, è sempre preoccupata e non mi lascia mai solo. Chissà, forse sono proprio i fantasmi che la tengono sveglia. Magari se le racconto le storie che nonno mi ha detto e ci rido su, lei si renderà conto di quanto siano sciocche e smetterà di preoccuparsi tanto.

Devo sforzarmi un po’ di ricordare. Ricordo che mi disse che il custode cantava ogni notte per scacciare gli spiriti. Forse mamma capirà perché qualche anno fa la supplicavo tutte le sere di cantare prima di darmi la buonanotte, che imbarazzo. Dovrei iniziare a cantare, così anche lei sarà più tranquilla e potrò ricambiare il favore. Potrei farlo, anche se un po’ mi vergogno con tutte le persone che ci circondano. Quanto vorrei essere a casa, soli e al caldo. Però siamo tutti qui. Io, mamma, papà, la vicina con sua nipote, il proprietario del negozio di fronte casa e tante altre persone che non conosco. Chissà se loro hanno sentito le storie sui fantasmi, forse quando la racconterò mi vorranno sentire anche loro. Se fosse così, mi devo preparare bene, non voglio fare brutte figure.

La storia del custode non basterà. Racconterò anche delle processioni di figure bianche che si sono viste. Quando mi ha parlato di questi avvistamenti mi sono spaventato davvero. Anche dopo aver fatto cantare mamma non riuscivo ad addormentarmi. Scambiavo tutte le cose per fantasmi. Le tende che si muovevano, la luce che entrava dalla finestra, ogni tanto anche una maglietta bianca che mamma non aveva ripiegato nel cassetto. Se gli spiriti mi avessero preso con loro sarei stato costretto a fare processioni tutte le notti. Ero proprio terrorizzato, così come quando nonno mi raccontò delle persone che sentivano catene sferragliare oppure pianti acuti. Ero convinto che non appena li avessi sentiti, sarei stato rapito o anche peggio.

Ora però non ho più paura dei fantasmi. Vorrei tornare ad averla. Quando ho scoperto che saremmo dovuti andare a dormire qui, nel palazzo infestato, ho pianto per una settimana intera. In realtà, anche se un po’ mi vergogno a dirlo, ho pianto anche per altri motivi. Non volevo più sentire quel rumore tremendo e poi quelle esplosioni. Solo al pensiero inizio a tremare.

Sono settimane che sono qui e di esplosioni non ne sento più tante, ma almeno la paura dei fantasmi mi è passata. Non li ho mai visti durante tutte le notti che ho dormito qui. Mi domando dove siano finiti, perché ci devono pur essere stati, altrimenti tutti avrebbero mentito. Chissà, magari hanno sentito le bombe e si sono spaventati anche loro. Adesso saranno lontani da Palestrina, alla ricerca di qualche altro palazzo da infestare. Che maleducati, avrebbero potuto portarci con loro, o almeno salutare. Forse sono andati a visitare il fiume dell’Antico Egitto che erano stanchi di vedere solo su un vecchio mosaico. Oppure vogliono trovare affreschi più belli. Non credo ci riescano e se ci hanno lasciato senza nemmeno un ringraziamento per l’ospitalità forse se lo meritano. Magari i fantasmi hanno paura delle persone quanto le persone ne hanno di loro e sono scappati per questo. L’unica cosa sicura è che non sono più qui e che io vorrei essere con loro. Vedrei tutti i posti di cui ci parla il maestro, come il Colosseo di Roma, dove magari un loro amico gladiatore mi sfiderebbe a duello, oppure i templi della Sicilia, dove potrebbero anche presentarmi qualche filosofo capace di spiegarmi la matematica. Sarebbe davvero bello, però se ne sono già andati. Eppure qui non canta mai nessuno per scacciarli. Sono tutti in silenzio oppure piangono.

Mentre pensavo alla mia storia e ai fantasmi il sole è andato a dormire, ma papà non è tornato. Inizio a preoccuparmi e a sentirmi assonnato. Vado a cercare mamma, forse lei sa qualcosa.

La vedo nel solito posto, con le mani strette intorno ad un rosario e la sua bella faccia scavata da occhiaie. Sono sicuro che se vedesse la processione dei fantasmi ci si unirebbe subito. Quando mi guarda, i suoi occhi mi spaventano un po’. Sembrano nascondermi qualcosa. “Vai a dormire, tesoro, non c’è bisogno che aspetti papà sveglio,” mi dice prima che io possa parlare. Torna subito a mormorare le sue preghiere e io non voglio interromperla.

Non voglio addormentarmi, non senza aver raccontato la mia storia, però farò finta per non disubbidire a mamma. E pensare che era lei che ci teneva tanto che io inventassi questa storia. Gli occhi mi si chiudono, ma mi sforzo di tenerli aperti. Non posso dormire, devo prima vedere papà. Sono davvero stanco. Stamattina mi sono svegliato prima dell’alba perché aveva suonato l’allarme, però bastano altri pochi minuti di attesa. Papà tornerà presto. Un altro momento di sforzo.

Un’esplosione. Un boato che può frantumare il vetro e le montagne. Una scossa che fa tremare anche le mie ossa. Non sento più nulla, solo un fischio acuto che mi fa male alla testa. Mi guardo intorno, ma tutto è avvolto da una polvere giallastra. Mi dà fastidio agli occhi, ma riesco ad aprirli. Non sono più nel palazzo. O forse lo sono. Ci sono solo detriti, vetri, blocchi di cemento crollati. Mi giro intorno, ma fino all’orizzonte tutto è coperto da macerie. Non vedo più la mia piccola casa sopra un negozio alimentare. Non vedo più la mia scuola. Non vedo più nulla. Tutto è scomparso, sostituito da un fischio tremendo nelle mie orecchie.

Non ho paura dei fantasmi, ma ho paura che tutta la mia vita prima delle esplosioni sia diventata un fantasma. I ricordi sono come i fantasmi, si possono sentire, ogni tanto anche vedere, ma mai toccare. Non c’è più una scuola dove andare. Non c’è più un palazzo in cui dormire. Non c’è più una casa in cui sperare di tornare. Non c’è più una città in cui i miei amici torneranno quando tutto questo finirà. Non ci sono più mamma e papà a cui raccontare la mia storia.

Voglio solo piangere, ma quando porto le mani agli occhi per asciugarmi le lacrime, sono trasparenti come quelle di un fantasma.

Mi sveglio, urlando, con la faccia bagnata e i vestiti zuppi di sudore. Mi guardo intorno e ci sono gli affreschi e le finestre rotte e i fuochi che non andrebbero accesi e gli sconosciuti. C’è mamma che mi stringe cercando di calmarmi. E c’è papà che mi accarezza la schiena sussurrandomi che è tutto a posto. È tornato. Vorrei poter essere calmo, raccontargli finalmente la storia che ho passato la sera a pensare. Ma non riesco a smettere di urlare e piangere. Non riesco a smettere di pensare alla mia Palestrina ridotta a pietre. Solo i bambini piangono per un brutto sogno, ma non riesco a controllarmi.

Mamma mi stringe al petto, e io provo di nuovo a respirare. Il suo calore mi fa stare meglio, ma non riesco a smettere di far scendere le lacrime pensando a tutto quello che vorrei indietro. “Non voglio diventare un fantasma,” sussurro. “Non voglio diventare un fantasma.”

 

Michel Costantini

Ladre di nettare

Ladre di nettare

Non c’era cosa al mondo che la regina della notte amava più del suo giardino eterno. Era la sua terra, il suo regno, il luogo in cui era nata e in cui i suoi giorni sarebbero finiti. Curarlo e proteggerlo non era solo il suo dovere in quanto regina, ma la sua vocazione. Senza il giardino eterno, sarebbe stata una regina senza regno, un fiore senza radici. Eppure anche il suo immenso amore non fu abbastanza per evitare di essere cieca di fronte ai bisogni delle sue piante. 

Ricordava poco di quando era ancora un fiore, un comune tulipano tra le centinaia di piante che popolavano il giardino. Sapeva solo che, dopo una miracolosa alba, era sbocciata in un nuovo corpo, eletta dalla precedente regina come erede al trono della notte. Il suo sguardo poteva scrutare i campi sterminati, uno stupendo oceano di colori di cui prima aveva fatto parte. Le sue radici erano state sostituite da gambe, mentre le sottili foglie sul suo stelo erano diventate braccia e mani. Solo la sua testa era rimasta una maestosa corona di petali, viola intenso come una notte senza stelle. 

Con il suo nuovo corpo, poteva finalmente raggiungere il ruscello di cui prima poteva solo sentire il flebile fruscio. La sua acqua era fresca e limpida, capace di nutrire l’intero giardino. Finalmente era alta abbastanza per ammirare le montagne erbose che circondavano il giardino come delle salde mura. Finalmente poteva avventurarsi attraverso i boschi di cui aveva visto solo le fronde più alte, mosse dal vento in una stupenda danza. Gli alberi possedevano tronchi e frutti, non erano solo foglie. C’era un mondo inesplorato da scoprire, un regno da conoscere e amare.

Ma fu proprio in mezzo a quegli alberi che un odio innato si risvegliò dentro di lei. Il ronzio delle api catturò la sua attenzione. Era così fastidioso, così opprimente. Non capiva da dove provenisse, né riusciva a vedere alcuna ape. Il battito frenetico delle loro ali però non cessava. Le api erano delle ladre di polline, una irritante pestilenza che torturava i fiori. Con le loro zampe e corpi pelosi solleticavano i petali, graffiandoli con le loro ali, simili a schegge di cristallo. Il nettare apparteneva ai fiori, chi aveva dato loro il diritto di rubarlo?

Non avrebbe permesso alle api di continuare la loro tremenda piaga sotto il suo regno. Lasciato quel bosco, decretò il suo primo editto: costruire una fontana nei pressi della foresta. 

Aspettò con impazienza che l’opera venisse compiuta. Mentre sorvegliava i lavori, il ronzio delle api la derideva in sottofondo. Più lei le malediceva, più le api si impegnavano a derubare i suoi amati fiori.

Si annidavano tra i petali delle rose come banditi, sorvolavano le fragili margherite come avvoltoi, ondeggiavano tra le primule come lupi famelici. Non c’era un angolo del giardino eterno che non fosse infestato dalle api. Mentre la regina della notte attraversava il suo reame invaso dal nemico, assaporava la sua vendetta e la sua soluzione.

La costruzione della fontana terminò e la regina non esitò un istante prima di versare il nettare più dolce nelle acque zampillanti. Le api ingorde non avrebbero sicuramente rifiutato un tale banchetto. Mentre il profumo inebriante si diffondeva all’interno del bosco, la regina gettò cicuta macinata all’interno della vasca. 

Le api giunsero in sciami, attirate dalla sua trappola, incapaci di resistere al richiamo del polline. La regina le osservava soddisfatta mentre assorbivano il nettare insieme al veleno. Una dopo l’altra, le api interrompevano il loro fastidioso volo, precipitando nell’acqua. Per pochi istanti, la regina potè sentire il vero silenzio, privo del continuo ronzio. Ecco, una volta eliminate tutte le api, il giardino eterno avrebbe prosperato nella quiete pacifica che meritava. 

“È quel che meritate, ladre di nettare,” diceva quando un altro insetto si accasciava sulla superficie dell’acqua, galleggiando come una foglia nera e gialla. 

Passavano i giorni e la fontana si riempiva di api avvelenate, ormai così numerose da occupare quasi l’intera vasca. La regina le gettava via, facendo nuovo spazio per altre vittime della sua trappola, sempre pronte ad arrivare. 

Il ronzio era quasi svanito, solo in prossimità del bosco si poteva ancora sentire. Era arrivato finalmente il momento di gloria per il giardino eterno. Niente più fastidi, niente più ladre. Era regina da poco eppure aveva già liberato il suo regno da una terribile minaccia. Chissà quanto più belli e robusti sarebbero diventati i suoi fiori, carichi di profumato e brillante polline. Era solo momento di aspettare e vedere i frutti che la sua trappola aveva messo in atto. 

Così un giorno si diresse verso l’area più lontana dal bosco, dove le api non si vedevano da tempo. “Arrivo, miei amati fiori, sarete stupendi come non mai.” Ma quando giunse nel roseto, non c’erano più petali dagli sgargianti colori, solo grigiore e boccioli appassiti. Degli steli non erano rimaste che le spine e delle foglie solo ammassi secchi. 

“Cosa vi hanno fatto?” urlò disperata, cercando invano una rosa ancora integra. Era sicuramente opera delle api. Questa era la loro vendetta. Come osavano sfidarla così apertamente nel suo regno? Come osavano distruggere il suo amato giardino? Queste ladre spietate dovevano essere eliminate definitivamente. Se la fontana non era abbastanza, si sarebbe occupata in prima persona del loro sterminio. 

Vagava giorno e notte alla ricerca delle malefiche api. Erano nemici invisibili, difficili da scovare. Sicuramente usavano i loro pungiglioni per avvelenare le piante, come lei aveva avvelenato le loro compagne. Che subdole creature. Era inammissibile lasciarle agire incontrollate. Appena riusciva a trovarle, le schiacciava sotto i suoi piedi, le spremeva tra le sue dita. Più api cadevano nella sua marcia funesta, più i fiori appassivano. 

“Dove siete?” gridava ai campi deserti. Nessun papavero sbocciava accarezzato dai raggi dell’alba. Nessuna bella di notte spalancava i suoi vivaci petali sotto la luce della luna. Nemmeno un singolo dente di leone diffondeva i suoi semi del vento, trasportando desideri e candore. Il giardino eterno stava marcendo, trasformandosi da un arcobaleno di petali a una distesa incolore. Era tutta colpa delle api. Quelle tremende usurpatrici, ladre senza contegno. Non era abbastanza aver tormentato i fiori con il loro ronzio? Non era abbastanza aver rubato polline? Non era abbastanza la devastazione che avevano già seminato?

La regina della notte non conosceva più sonno, più calma. Le sue lacrime bagnavano inutilmente le piante ai suoi piedi, acqua salata che le faceva marcire ancora più in fretta. Distruggere le api fino all’ultima era diventata la sua ossessione. Si spingeva tutti i giorni all’interno del bosco, dove ancora qualche fiore era in grado di resistere. Il ronzio qui era più forte, ma gli alberi erano un labirinto e trovare l’alveare era impossibile. 

Era derisa da quel suono di ali che persistevano mentre il giardino appassiva. Seguiva le tracce di fiori rimasti, calpestando le api che trovava sul suo cammino. Fino a che le poche piante superstiti la portarono ai piedi dell’alveare. Le api uscivano ed entravano da quella massa informe, come un organo infetto che aveva avvelenato l’intero giardino. “Eccovi, ladre maledette!” 

Con tutta la furia e la disperazione che aveva accumulato nel vedere la sua terra marcire, si scagliò contro l’alveare. Le sue dita affondarono nel miele, mentre strappava pezzo per pezzo quegli esagoni perfetti. Mentre le sue mani si chiudevano intorno ai corpi nelle api, in una poltiglia di miele e ali frantumate, i fiori intorno a lei continuavano ad appassire.

La sua ira non si era spenta, ma il ronzio era finalmente terminato. Solo un’ape, diversa dalle altre e più grande, arrancava tra le macerie di quell’enorme alveare. Le zampe non spezzate cercavano di portarla via, al riparo dalla regina della notte. Era inutile, senza le sue ali, quell’ape non aveva speranze di fuggire. 

La regina sollevò i pugni nell’aria, facendoli precipitare sull’ape. Le sue mani erano intrise di miele, i corpi morti degli insetti ancora attaccati ad esso. Anche i petali della sua testa si erano ormai afflosciati, privi del nutrimento che la visione del giardino era in grado di darle. 

Quando si girò, l’ultimo fiore ancora intatto appassì di fronte a lei. Si spezzò un petalo dopo l’altro, il loro blu lasciava posto al grigio. Con questa tremenda visione, la regina della notte ricordò qualcosa che non avrebbe mai dovuto dimenticare. La notte prima della sua trasformazione, un’ape si era poggiata su di lei, solleticandola delicatamente. Con il nettare della precedente regina della notte, l’ape le aveva donato nuova vita. Era grazie alle api che lei era sbocciata quella miracolosa alba. Erano le api a rendere eterno il giardino eterno, non la regina della notte. 

Ora le api non c’erano più, schiacciate tra il miele e i frammenti di un alveare, avvelenate in una fontana ingannatrice. E senza le api, non c’era più un giardino da amare e preservare. Nel silenzio atroce di un regno senza abitanti, la regina della notte ricordò il ronzio di quelle ali operose e non potè far altro che fissare le sue mani, sporche del miele che il giardino eterno non avrebbe mai più prodotto.

Michel Costantini  






















Michel Costantini

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