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Figlio della vergogna

Figlio della vergogna

Il mio benvenuto al mondo furono le grida di mia madre, mentre il mio corpo deforme usciva dal suo grembo. Le ricordo e voglio dimenticarle. Vorrei avere altri ricordi di lei, ma a stento riesco a pronunciare il suo nome. “Pasifae,” sospiro, ma il suo nome rimbomba sulle mura che mi circondano e lei non è mai qui. Non lo è mai stata, perché la madre di un mostro non prova altro che vergogna per la sua creazione. 

Il buio non mi lascia altro che ricordi. Ricordi che non voglio. Ricordi che non ho chiesto. Ma che mi assillano e vivono dietro le mie palpebre come parassiti. Ricordi della luce che non vedo da anni e di tutti gli orrori che sono accaduti sotto l’indifferente occhio di mio nonno: il sole, colui che tutto vede e nulla compie, che ha abbandonato al suo atroce destino suo nipote, non degnandosi di scendere dal suo accecante carro. Dannati gli dei, dannato mio nonno. 

Sono il figlio della vergogna. Sono il figlio della boria di un tiranno incapace di rispettare il volere degli dei. Dannato Minosse e dannati gli dei. Sono il figlio della maledetta voluttà della mia innocente madre. No, non innocente, ma colpevole come tutti loro. Colpevole di non avermi amato. Perché non ero degno del latte del suo petto? Perché non ero degno di una sua carezza? Perché Arianna e i suoi figli hanno avuto l’amore che io posso solo immaginare? Dannata lei, dannati gli dei, ma dannati soprattuto gli uomini. 

Minosse, tiranno senza pietà, non merita nemmeno il mio sputo, ma su una cosa aveva ragione. Mentre la sua frusta sferzava la mie carne e il sangue grondava dalle mie ferite, la mia bianca pelliccia impregnata della sua vermiglia melma, diceva l’unica verità che abbia mai conosciuto. “Ti odieranno sempre. Non sei uomo e non sei bestia. Vai nei boschi e gli animali ti eviteranno, spaventati dall’orrore del tuo aspetto. Vai nelle città e gli uomini ti ripudieranno, anzi, ti cacceranno, come il più infimo dei conigli.” Dannato lui e dannati gli uomini, ma Minosse aveva ragione. 

Ma io non voglio vivere in una città. Io non voglio pascolare nei boschi. Ho un unico desiderio. Rivedere la luce, sentire il suo calore sulla mia pelle. Vedere la mia candida pelliccia risplendere quasi iridescente sotto la sua dolce carezza. Ma dov’è la luce? Dove sono io? 

Sento il mio respiro. La fredda oscurità della mia prigione lo congela in un biancastro vapore. Ricordo tutto, ricordo ogni giorno passato sotto il sole. Il disprezzo dei miei fratelli, l’orrore delle mie sorelle, il livore del tiranno che avrei chiamato padre se mai mi avesse dato l’opportunità e la tristezza nei vacui occhi di mia madre. Ma non ricordo, per quanto mi sforzi, quando arrivai qui. Quando questa prigione mi reclamò come suo. Dannato Ipnos e dannato sonno, perché quella sera mi addormentai? Perché al mio risveglio non ci fu altro che buio? 

Ormai i miei occhi conoscono il buio come se fosse luce, ma non ci sono altro che mura. Mura infinite e svolte e nicchie e scale e vicoli e mura e mura e mai una finestra, mai una crepa da cui vedere la luce. Ma c’è una porta. Una singola, terribile porta, da cui ogni anno arrivano loro. Quei quattordici ragazzi, giovani e belli come io non sarò mai. Arrivano con la loro paura e il loro odio. Ma non sanno che io li odio di più.

Arriveranno presto, a momenti. Segno con i miei duri zoccoli i giorni passati qui. Il mio pasto è vicino. E io ho fame, divorerei il mondo e tutti gli uomini che vi camminano sopra. Divorerei la frusta con cui Minosse mi puniva per essere nato. Divorerei il panno in cui fui avvolto e pulito dal sangue di mia madre. 

Ed ecco che la porta, la terribile porta che mi deride con la sua portentosa robustezza, scricchiola. Dannato Dedalo e il suo genio, dannati gli uomini e le loro arti. Non c’è luce. Dedalo è stato crudele. Ha costruito due porte, così che io mai vedessi la luce. Così che io la dimenticassi. Ma non posso dimenticarla, perché è nel mio sangue. Perché nelle mie vene scorrono le gocce di luce che discendono da mio nonno. 

Eccole, le mie tremanti prede. Quattordici, come ogni anno, ma mai abbastanza per sfamarmi. Il mio stomaco si attorciglia pensando alla loro carne. Quanto la bramo. La mia bocca si riempie di saliva anche al pensiero delle loro ossa. Vorrei… vorrei non dovere fare questo. Vorrei poter essere tra loro. Giovane e bello come loro. Ma la fame mi acceca e loro mi hanno rifiutato. Loro non meritano la mia pietà.

Il fiato si fa già veloce, mentre loro si accalcano, graffiando la porta, urlando a squarciagola. Tranne uno. Un ragazzo si fa avanti, il suo polso è cinto da un filo dorato e nella sua mano impugna una spada. Non urla, anzi, mi fissa, come se il buio totale non ci fosse. Come se la sua bellezza e la sua forza irradiassero luce propria. Non accetterò tale presunzione nella mia prigione. 

I miei zoccoli echeggiano sul pavimento mentre carico verso di lui, le mie corna taurine puntate al suo fiero petto. Le urla dei giovani mi ricordano quelle di miei madre e alimentano la mia furia come Zefiro fa con le fiamme. 

Corro, corro verso di lui, mettendo tutto il mio odio nelle mie zampe. Ma sono stato sciocco. La sua lama squarcia il mio petto, il mio sangue scorre sul filo della sua spada, gocciolando ai suoi piedi. Alzo gli occhi e il giovane mi guarda. Dopo tutti questi anni ancora non ho imparato. C’era speranza nel mio cuore trafitto di trovare pietà nel suo sguardo. Ma il giovane è soddisfatto. 

“Il Minotauro è morto!” urla ai suoi compagni e sorride. “Il terrore di Creta è stato sconfitto!”

Le mie ginocchia cedono e il sangue lava via lo sporco e la polvere dalla mia pelliccia. Non più bianca, ma rossa come le pregiate stoffe che Minosse amava tanto. I miei battiti si fanno sempre più lenti finché non li sento più, sopraffatto dalle urla dei giovani.

Il mio addio al mondo sono le grida di quei quattordici ragazzi. Non di dolore, ma di gioia. Festeggiano la mia morte come io ho assaporato la carne dei loro fratelli. 

Forse se fossi stato come il giovane che mi ha ucciso mia madre mi avrebbe stretto al petto. Forse Minosse avrebbe voluto avermi come figlio. Forse gli uomini mi avrebbero accettato. Ma è troppo tardi per cambiare. Sono nato deforme e sono morto come mostro. 

Le mie lacrime si uniscono al sangue e le mie corna sbattono al terreno. 

Il mio cuore si stringe e si contorce mentre la mia anima viene tesa come un filo e le forbici esperte di Atropo la tagliano. Le tre voci delle Moire si uniscono in un canto che quasi mi fa dimenticare le grida dei giovani e quelle di mia madre. Quasi mi fa dimenticare il fischio delle frusta di Minosse. “Vieni figlio delle bestie e degli uomini, il tuo supplizio termina qui,” recitano in coro.

La mia vista affoga nell’oscurità. La vera oscurità, quella che anche i miei occhi abituati non riescono a penetrare. Ma mentre emergo da questa pozza di nero, un tepore solletica la mia pelliccia. Non apro gli occhi, ma la luce già mi acceca. E so che la mia pelliccia sta brillando come non mai e che le tetre mura delle mia prigione sono scomparse. Il canto delle Moire si interrompe, più materno di qualsiasi mormorio di Pasifae, ma sono finalmente libero. 

 

Michel Costantini

Dolce, soave, irraggiungibile voce

 

Dolce, soave, irraggiungibile voce

 

La stanza era fredda, vuota, buia. Le finestre erano chiuse da settimane. Il velluto damascato delle tende pesanti non faceva passare nemmeno un raggio di luce. I cristalli dei lampadari non riflettevano più alcuna fiamma vivace di candela. 

Nelle mani di Lewis era stretto un grammofono, l’ottone arrugginito ondeggiava con il suo passo. Lo posò sul maestoso pianoforte a coda nell’angolo dell’immensa sala. Il tonfo fece eco sul soffitto affrescato, la foglia d’oro spogliata del suo luccichio dall’oscurità. Spostò lo sgabello, affondando nel cuoio. I suoi occhi erano rossi e gonfi, il suo viso rigato dalle lacrime come fiumi che scavano il proprio letto nella terra. 

Allungò la mano verso l’asticella del macchinario, facendo poggiare la punta sul disco nero. Un ronzio uscì dalla tromba. Portò le mani sulla tastiera, le sue dita trovarono i tasti come se non fossero mai state in altri luoghi, e iniziò a suonare, seguito da una voce bellissima. Una voce limpida, come il mare calmo, soave, come il pianto degli angeli. 

Voce e melodia riempirono il gelo frizzante della stanza.

Lewis portò la testa all’indietro. I lunghi capelli si alzarono dietro di lui, bagnandosi di lacrime salate. Viaggiava sulla tastiera come un cavaliere in cerca dell’amata. Ogni tasto nero era un ostacolo, ma li superava tutti, nella speranza di raggiungere quella voce così lontana. E quando sembrava mancare solo un passo, tornava indietro, brusco, grave. E il suono di un basso profondo come l’abisso sfasciava il silenzio. 

La voce lo accompagnava, richiamandolo a salire, a tornare alla dolcezza degli acuti, ma anche quella talvolta si abbassava. Si fermava, lasciando attimi di terrore per l’eroe della tastiera, sperduto senza più guida, e allora iniziava una follia di salti. Viaggi oscuri nelle foreste più tetre, traversate di cieli stellati. Alti e bassi si alternavano, fino al ritorno della voce amata a fare di nuovo da guida. 

Una mano rimaneva sicura e solida, l’altra correva su mille tasti, e poi si davano il cambio, ma quella voce era sempre lontana.

Lewis alzò gli occhi doloranti sullo sparito di cui non aveva bisogno. Aveva suonato mille volte quel brano, il suo sangue scorreva seguendo quel ritmo. Le stupende parole che la madre cantava erano impresse nella sua memoria. E quel suono interrotto da disturbi non era altro che un’infima copia della bellezza che un tempo aveva avuto la fortuna di udire. 

Lo spartito ricambiò il suo sguardo, con quell’oceano di segni. Mille erano i cerchi che vagavano per il mare di linee, che cercavano di tenerli in ordine, ma loro fuggivano quanto più potevano. Issavano vele per aumentare la loro velocità, si assottigliavano per contrastare con il silenzio la tempesta, si svuotavano per mantenersi solide nella marea. 

E poi, quando Lewis chiuse gli occhi, si staccarono, libere finalmente da quella prigione di linee. Migrarono come uccelli in volo dalla carta per arrivare all’aria, lentiggini di inchiostro. Anche se non c’era luce, Lewis poteva vederle risplendere.

La voce melodiosa si fece più malinconica, mentre le note si allungavano nel vuoto della stanza. Come sotto l’azione di un pennello di un sapiente pittore, presero mille forme diverse. 

Prima erano un donna, bellissima in ogni suo punto. Il sorriso gentile contornato di rosa, i capelli raccolti in una nera sfera, due occhi del colore delle foglie autunnali, quelle che si frantumano al minimo tocco. Ed anche lei era delicata come una foglia, una voce bellissima, che la tosse rompeva sadica. 

Lewis voleva allungare la mano verso quella figura, ma ci pensarono le note a farlo, lasciandogli il compito di continuare a suonare. Un bambino si formò ai piedi della donna, con una manina stretta alla sua gonna. Guardava ammaliato la madre, gli occhi incantati mentre la vedeva cantare.

L’eroe non si sarebbe dovuto fermare, la donzella era vicina, poteva sentire le parole di speranza dalla sua introvabile torre, che forse si celava dietro il prossimo tasto nero. 

Ma ecco che le note presero nuovo aspetto, e tornò di nuovo quel basso capace di far crollare imperi. 

La donna era inginocchiata, la bocca coperta da un fazzoletto ricamato, del rosso era sbiadito in alcuni punti. E quel bambino non poteva far altro che rannicchiarsi vicino a lei, tentato di coprirsi le orecchie. Ma si era ripromesso che come avrebbe ascoltato le canzoni, avrebbe avuto il coraggio di esserci in quei momenti. 

Dopo la tempesta, esce sempre il sole, e così l’eroe raggiunse di nuovo i pascoli più dolci. Parole piene di gioia e di amore, ecco cosa sentiva, e le note le seguirono anch’esse. Centinaia di fiori di ogni forma accarezzavano i piedi della madre e del figlio. Nessun fazzoletto macchiato in vista, solo labbra che si schiudevano per formare melodie incantate. Le manine del bambino battevano felici.

Lewis sorrise e le lacrime si raccolsero sugli angoli della sua bocca incurvati verso l’alto. 

Un fremito interruppe la voce del grammofono, come un graffio violento ed improvviso. Era già tardi quando quel disco era stato registrato. E tutto si abbassò, tutto si fece più ruvido, ma non si fermò. L’eroe lasciò le praterie verdi e tornò in quei reami oscuri, in cui era sicuro che non si trovasse la sua amata. Anche le note lo seguirono. 

Un letto a baldacchino occupava il centro della sala. La sala in cui un tempo si erano ospitati balli. I vestiti danzavano con il suono di quella voce che nel grammofono dava una pallida idea della sua reale bellezza. E la mano della donna a cui apparteneva era sempre stretta sulla spalla del figlio, seduto al pianoforte. Non c’erano più applausi, vestiti e feste lì, solo vuoto. E ora un letto, tra le cui coperte si nascondeva l’esile corpo di una donna. Un’altra figura era in piedi vicino ad esso, stringendo forte la mano senza forze. Non era più un bambino, ma rimaneva suo figlio. 

Quando quell’ultimo respiro fu esalato dalla donna, più sereno di qualunque fosse mai uscito dalle sue labbra, in quella recita delle note fuggite dallo spartito, un silenzio atroce catturò la sala nella sua tirannia. Le mani di Lewis si erano alzate dalla tastiera, pronte a ricadere violente sui tasti, in un accordo che avrebbe penetrato i muri più possenti. La caduta di quelle dita accompagnò quella del figlio fatto di note sul pavimento, che ora nascondeva il volto nelle coperte, bagnandole di lacrime.

L’eroe aveva esaurito le forze, ma non aveva trovato la sua amata e non sentiva più la sua voce, non aveva senso continuare. Così le note tornarono nella gabbia dello spartito.

Lewis si alzò dallo sgabello. Mise fine al ronzio del grammofono e prese l’urna che sedeva sull’altro lato del pianoforte. I motivi floreali avevano subito lo stesso fato degli affreschi del soffitto, condannati all’oscurità, ma stavano per rivedere la luce. Procedette fino alla parete di fondo, una porta era nascosta dietro due tende. La spalancò, facendo cigolare le ante. Il sole invase la stanza, avido di quell’ambiente da cui era stato allontanato per così tanto.

Di fronte al ragazzo si distendeva un lungo patio in pietra, la balconata che lo circondava dava sul mare. I movimenti delicati dell’acqua riflettevano la luce come squame brillanti. Lewis raggiunse la scalinata che portava alla spiaggia. Alla salsedine che incrostava i gradini si aggiunsero le sue lacrime. 

Ormai affondava le scarpe nella sabbia, il mare provava a ghermirle, distendendosi con tutte le sue forze, ma poi tornava indietro. Mise la mano sul coperchio dell’urna, poggiandolo a terra. Allungò le mani in avanti e ceneri grigie iniziarono a cadere nell’acqua. 

«Grazie, mamma» disse Lewis. La sua voce era infranta e rauca, ma un sorriso increspava le sue guance. Quando anche l’ultimo granello si disperse nell’oceano, richiuse l’urna. 

La prima cosa che avrebbe fatto appena tornato in casa sarebbe stata aprire le tende. Ma per il momento si limitò a stringere il ciondolo che portava sul petto. La foto che nascondeva era ben protetta dal calore della sua mano. E anche se era solo una foto, la poteva sentire battere vicino al suo cuore.

 

Michel Costantini

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