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23, nero

23, nero

 

La roulette girava come un turbine, portando con sé la pallina bianca. Il rumore metallico ed echeggiante di ogni rimbalzo si perdeva tra le grida del Gran Casinò. 

Gli occhi attenti di Ottavio si stringevano ogni volta che la sferetta luccicante sembrava fermarsi sul nero. Una puntata esorbitante che avrebbe fatto paura anche ai più scaltri sedeva vanesia sulla casella 23. Fiches sgargianti su un letto verde. Non poteva perdere, per nulla al mondo. 

Altri pochi giri, carichi di terrore, ma anche di un’inspiegabile sicurezza. 

«23!» annunciò il croupier, consegnando ad Ottavio la somma invidiabile. Lo sguardo minaccioso degli altri partecipanti lo penetrò, ma fu scacciato dal sorriso beffardo del trentenne.

Ottavio alzò le braccia, accogliendo la sua vincita. Stava per andarsene: per quanto dipendesse dal gioco d’azzardo, ogni tanto sapeva quando era tempo di congedarsi. Eppure un ingresso inaspettato glielo impedì.

Nel Gran Casinò, non si vedevano spesso donne come quella che era appena entrata. Dopo una bella vincita ci vuole sempre un altro tipo di piacere, pensò Ottavio con malizia. 

Il portamento sicuro, lo stretto abito leggero che lasciava poco all’immaginazione ed il volto dallo sguardo audace facevano della pallida ragazza un obiettivo appetibile. Eppure qualcosa sembrava non avere alcun senso in quell’avvenente giovane. Il parasole che stringeva in mano dai vivaci toni del celeste e del giallo non si abbinava all’abbigliamento, nonché all’aspetto da snob. Ma soprattuto, lo lasciava aperto, anche sotto le luci cupe dell’ingresso.

Ottavio notò con piacevole sorpresa che l’enigmatica sconosciuta stava raggiungendo il suo tavolo da gioco. Più era vicina, più sembrava familiare e più si perdeva nei suoi profondi occhi bruni.

«Non teme la sfortuna?» domandò suadente quando la ragazza si sedette accanto a lui. 

Quella guardò l’ombrello appoggiato alla sua spalla e lo chiuse. «Ne ho avuta che basta per una vita intera, non mi fa più alcuna paura» rispose sorridendo.

La partita durò molto e Ottavio rimase ancora più intrigato dalla sconosciuta. Lei sembrò particolarmente interessata al motivo della continua puntata sul 23. Una domanda a cui non avrebbe mai dato risposta, ma era la prima a chiederlo e quell’attenzione lo affascinava. 

«Immagino non sia la prima volta che gioca, eppure non l’ho mai vista qui» disse Ottavio quando la ragazza vinse una somma a quattro zeri.

«Sono sempre felice di stupire. Immagino sia la fortuna dei principianti, chi lo sa» replicò la ragazza, sfiorando con il braccio Ottavio. 

«Lei ha una stanza qui? Sarei onorato se mi raggiungesse» propose Ottavio, fissandola ed accennando un contatto.

«Sono arrivata oggi ed ho visto la piscina dell’hotel, è fantastica. Peccato che non sia potuta andarci.»

«Si può sempre rimediare.»

 

Ottavio non riusciva ancora a credere di star seguendo la ragazza nella piscina. Quelle forme prorompenti lo allettavano. Una volta giunti davanti all’acqua, iniziarono a spogliarsi. 

Guardò con stupore la donna quando notò che sotto l’abito aderente indossava un costume da bagno, ma non fece domande. Il suo desiderio di rovinare l’atmosfera era nullo.

L’acqua era calda e piacevole sopra la loro pelle. Lei nuotava con eleganza, in curve gentili. Ottavio invece si limitava ad andare sott’acqua ed ammirarne i movimenti dal basso.

Ci vollero pochi minuti prima che si avvicinassero. Ognuno osservava il corpo dell’altro con desiderio. Una brama quasi famelica si leggeva nei familiari occhi castani della ragazza, la pelle era ancora più chiara sotto le luci intense della piscina. Ottavio la accolse con piacere, annullando le distanze tra le loro bocche.

Sapore di sangue.

Lo sentì sulla lingua confuso. Aprì gli occhi. Rimase esterrefatto davanti al volto sfigurato e sanguinante della donna che un attimo prima stava baciando. Lacrime si univano all’acqua sottostante, passando per ogni deforme solco.

I ricordi arrivarono all’istante, dolorosi e taglienti.

Una bevuta di troppo, una strada deserta sul lungomare, la velocità stupefacente, una ragazza che la attraversava, dei freni spinti quando ormai era troppo tardi, un parasole che volava verso la spiaggia, il corpo investito della giovane, la corsa folle per allontanarsi il più possibile senza guardarsi indietro. Tutto graffiò la sua mente in un istante.

Respirava ancora quando si era fermato per controllare, avrebbe potuto salvarla. Ma non l’aveva fatto, quel 23 giugno aveva lasciato morire un’innocente.

Quando i ricordi smisero di offuscargli la vista notò che davanti a lui non c’era più nessuno.

Ottavio sentì una stretta intorno al piede portarlo verso il basso, fino al fondo della vasca. Cercò di annaspare, ma la presa era troppo forte per fuggire. L’aria mancava, si aggrappava all’acqua inutilmente. Implorava perdono, grandi bolle si alzavano fino in superficie, ma lui era bloccato.

Dopo alcuni minuti il suo corpo iniziò a galleggiare, il ventre rivolto verso il basso. Gli occhi serrati per non riaprirsi mai più.

Lycoris Radiata

Ecco il nuovo racconto di Michel

Lycoris Radiata1

 

Dicono che quando si incontri qualcuno che non vedrai mai più dei gigli rossi sboccino sulla strada. E quando quel giorno ti salutai, capii che era un addio. 

Eravamo su quel grandioso balcone, tutta la folla se ne era andata, eravamo rimasti solo noi due, ma per me c’eri sempre e solo tu. Provai a toglierti la corona, per quelle mille rose d’oro che sedevano sulla tua chioma corvina avevamo rischiato tutto. Credevo che fossimo riusciti a superare ogni ostacolo grazie al nostro amore, ma mi sbagliavo. Tu mi allontanasti la mano con un sorriso, dovevo lasciarla lì. Ignorai quel gesto e ti baciai. Quanto erano calde le tue labbra, come le fiamme che divorano senza pietà. Quanto erano profondi i tuoi occhi, blu come il più ignoto dei mari. Se la mia vita fosse finita in quell’istante non avrei avuto alcun rimpianto. Ma con quel bacio è finito tutto, tranne la mia vita.

Mi allontanai più felice di quanto non lo ero mai stato, l’intero mondo si era inchinato a noi. Ma poi mi accorsi di quello che stava accadendo. Erano scarlatti come il sangue fresco, letali come la più affilata delle lame, belli come te. Sbocciavano in ogni crepa, in ogni angolo buio. Crescevano dal nulla, lo sgomento deturpò il mio volto. Noi eravamo diventati leggenda e ora le leggende si avveravano. Mi girai verso di te e tu mi sorridesti, ma non era quella bocca che prima avevo assaporato con tanta avidità. Era fredda come i venti della notte, una maschera che per quanti dettagli avesse rimaneva una maschera. Corsi più lontano, ma i fiori sembravano seguirmi, germogliando tanto più rapidi quanto più cresceva la mia paura.

Avevamo tutto, ma per me bastavi solo tu. Ma tu… tu volevi sempre di più, nulla era abbastanza. Eravamo solo due generali, chiunque avesse ascoltato i nostri piani ci avrebbe considerati due folli e forse lo eravamo. Ma eravamo riusciti a conquistare tutto, solo il cielo era il nostro limite. Non c’era più un angolo su queste terre in cui non sventolasse il nostro stendardo, fiero come la nostra passione. Eravamo gloriosi, eravamo i salvatori di un mondo che doveva cambiare e noi ne eravamo la chiave. Ma quelle erano solo stupende bugie da cui anche io mi ero fatto ingannare. Menzogne come quel tuo ultimo sorriso. Nessuno avrebbe mai placato la tua sete di potere. Quei gigli rossi mi fecero aprire gli occhi. Eravamo dei mostri, eravamo ciò che di più lontano ci fosse da dei salvatori. Non mi ero mai accorto del sangue che macchiava le mie mani, le guardavo con terrore. Dovevo tornare da te, dovevo parlarti, credevo, che sciocco che ero, credevo che dovessi comprenderlo anche tu, ma tu lo avevi già fatto e non avevi sussultato nemmeno un attimo. Non c’era alcun pentimento. 

Non ero ancora uscito dal palazzo, un mero monumento ad una gloria immeritata. Tornai indietro fino a raggiungere il nostro studio. Spalancai la porta, ma tu non eri lì dentro. Dietro quell’enorme scrivania intarsiata si aprivano due finestre. Nell’attesa guardai fuori. La strada pullulava di guardie che facevano rientrare i civili nelle loro case. Tra un’abitazione e l’altra erano affissi i nostri stemmi, era il giorno della nostra incoronazione. Non c’era nessuno più potente di noi, forse solo gli dei, ma tu avresti spodestato anche quelli. Dovevamo essere fermati.

Entrasti con il tuo solito passo fiero ed elegante. Quando mi voltai, vidi i centinaia di petali rossi che avevano invaso lo studio. Le mappe che ricoprivano le pareti, con i territori sotto il nostro dominio colorati di nero, erano state lacerate dai fiori. 

«Cosa sono questi?» domandasti con fastidio. Con uno schiocco di dita tutti i gigli presero fuoco, ma nessuno sembrava arrendersi al calore. «Cosa ci fai qui, amore?»

Deglutii.

«Ti è successo qualcosa, si legge nei tuoi occhi.» La gentilezza nella voce che avevo amato era forzata.

«Dobbiamo fermarci, tutto questo… tutto questo è stato un errore» spiegai balbettante. Il mio mondo era crollato, in un solo attimo. Ero veleno, volevo salvare colei che amavo, ma era lei ad avermi distillato.

«Ma cosa stai dicendo? Non lo vedi? Abbiamo tutto quello per cui abbiamo lottato.» Il luccichio dei tuoi occhi si trasmise ad ogni petalo della corona. Vedevo anche quella sporca di sangue. L’affresco che raffigurava il sole levante sulla parete dietro di te ti circondava come una aureola, ma sembrava un’eclissi.

«No, no. È tutto sbagliato, questo non è quello che volevamo. Noi non eravamo questo. Cosa siamo diventati?» Tremavo come non mai, anche nelle più aspre guerre nei luoghi più gelidi non mi ero sentito così. «Cosa siamo diventati?»

«Divinità» sussurrasti. Un sorriso perverso ti solcò il volto. Ti avvicinasti a me e vidi nei tuoi occhi la verità. 

Ti avevo persa, le leggende erano vere. Altri fiori sbocciarono. La te che avevo conosciuto, di cui mi ero innamorato, era un’altra. Lei aveva speranza, credeva in ciò che faceva e voleva un mondo migliore per noi. Lei voleva un mondo dove il nostro amore fosse stato al riparo da ogni male, ma quella te che avevo davanti non era altro che una sua copia corrotta, da un potere che nessun umano può sopportare.

«Non era quello che volevamo diventare…» Scossi la testa. «Dovevamo creare il nostro mondo perfetto, non creare altro orrore.»

«Quello che abbiamo adesso è molto meglio. Vieni qui» mi dicesti, allargando le braccia. Ma io avevo paura, sembrava la bocca spalancata di una belva. Rimasi immobile. 

Le tue dita si irrigidirono, gli altri fiori che erano sbocciati si infiammarono. «Amore, ho detto vieni qui.» Era un ordine come quelli che davi agli eserciti senza pietà. La tua unica misericordia era la distruzione e io me ne ero accorto troppo tardi.

Girai intorno alla scrivania e ti raggiunsi barcollante, calpestando i fiori infuocati, vivi come il desiderio di rivederti un’altra volta. Mi lasciai avvolgere dalle tue braccia, ma quell’abbraccio era gelido come la morsa delle onde.

«Sempre insieme, ricordi» bisbigliasti al mio orecchio. Ma per te quella frase non aveva più senso.

«Sempre insieme» ti risposi. Passai la mano sul tuo fianco nel punto in cui sapevo non c’era alcuna protezione. Il tagliacarte sulla scrivania apparve nelle mie mani, trafiggendoti. Feci scorrere la lama, squarciando il velluto della tua veste e ciò che si celava sotto.

Un gorgoglio uscì dalla tua bocca e mi gettasti all’indietro. «Come osi?» Il tuo urlo mi spezzò il cuore. Mentre ti afflosciavi a terra la tua mano scattò nell’aria, fendendola con precisione. Schegge di ghiaccio mi si gettarono contro. La corona rotolò a terra sbattendo contro la parete.

Controllai una lingua della tempesta di fuoco che si abbatteva invano sui fiori e le scaglie si sciolsero in essa. 

Eri rannicchiata a terra, debole come non lo eri mai stata. Mi avvicinai, le lacrime evaporavano tra le fiamme per terra. Ti strinsi tra le braccia, portando la tua testa al mio petto, il tuo fiato sempre più corto. Il sangue mi macchiò il ventre.

«Cosa siamo diventati, Clelia?» 

Tu mi guardasti negli occhi, il blu era nascosto da fitte lacrime. «Mostri.» Tutti i fiori appassirono all’unisono, estinguendo le fiamme. Le leggende si sbagliavano, la te che ho amato l’ho rivista un’ultima volta.

Singhiozzai sul tuo corpo freddo, avvolto dal tuo sangue caldo. Poi mi alzai, distendendoti con delicatezza sul pavimento. Mi diressi alla finestra, la gloria delle nostre conquiste era diventata inutile in un secondo, senza di te nulla aveva più senso. Il mio riflesso mi consegnò uno sguardo di compassione. Nemmeno io potevo convivere con chi ti aveva uccisa, quello non potevo essere io. I gigli rossi sbocciarono tra i miei capelli biondi, uscirono dalle mie labbra sottili. I fiori mi avvolsero con i loro steli fragili e i loro petali cremisi. Non c’era nessuno più forte di noi, nemmeno gli dei, solo noi stessi. Noi eravamo veleno e antidoto.

 

1 Nome scientifico del giglio del ragno rosso

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