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Lycoris Radiata

Ecco il nuovo racconto di Michel

Lycoris Radiata1

 

Dicono che quando si incontri qualcuno che non vedrai mai più dei gigli rossi sboccino sulla strada. E quando quel giorno ti salutai, capii che era un addio. 

Eravamo su quel grandioso balcone, tutta la folla se ne era andata, eravamo rimasti solo noi due, ma per me c’eri sempre e solo tu. Provai a toglierti la corona, per quelle mille rose d’oro che sedevano sulla tua chioma corvina avevamo rischiato tutto. Credevo che fossimo riusciti a superare ogni ostacolo grazie al nostro amore, ma mi sbagliavo. Tu mi allontanasti la mano con un sorriso, dovevo lasciarla lì. Ignorai quel gesto e ti baciai. Quanto erano calde le tue labbra, come le fiamme che divorano senza pietà. Quanto erano profondi i tuoi occhi, blu come il più ignoto dei mari. Se la mia vita fosse finita in quell’istante non avrei avuto alcun rimpianto. Ma con quel bacio è finito tutto, tranne la mia vita.

Mi allontanai più felice di quanto non lo ero mai stato, l’intero mondo si era inchinato a noi. Ma poi mi accorsi di quello che stava accadendo. Erano scarlatti come il sangue fresco, letali come la più affilata delle lame, belli come te. Sbocciavano in ogni crepa, in ogni angolo buio. Crescevano dal nulla, lo sgomento deturpò il mio volto. Noi eravamo diventati leggenda e ora le leggende si avveravano. Mi girai verso di te e tu mi sorridesti, ma non era quella bocca che prima avevo assaporato con tanta avidità. Era fredda come i venti della notte, una maschera che per quanti dettagli avesse rimaneva una maschera. Corsi più lontano, ma i fiori sembravano seguirmi, germogliando tanto più rapidi quanto più cresceva la mia paura.

Avevamo tutto, ma per me bastavi solo tu. Ma tu… tu volevi sempre di più, nulla era abbastanza. Eravamo solo due generali, chiunque avesse ascoltato i nostri piani ci avrebbe considerati due folli e forse lo eravamo. Ma eravamo riusciti a conquistare tutto, solo il cielo era il nostro limite. Non c’era più un angolo su queste terre in cui non sventolasse il nostro stendardo, fiero come la nostra passione. Eravamo gloriosi, eravamo i salvatori di un mondo che doveva cambiare e noi ne eravamo la chiave. Ma quelle erano solo stupende bugie da cui anche io mi ero fatto ingannare. Menzogne come quel tuo ultimo sorriso. Nessuno avrebbe mai placato la tua sete di potere. Quei gigli rossi mi fecero aprire gli occhi. Eravamo dei mostri, eravamo ciò che di più lontano ci fosse da dei salvatori. Non mi ero mai accorto del sangue che macchiava le mie mani, le guardavo con terrore. Dovevo tornare da te, dovevo parlarti, credevo, che sciocco che ero, credevo che dovessi comprenderlo anche tu, ma tu lo avevi già fatto e non avevi sussultato nemmeno un attimo. Non c’era alcun pentimento. 

Non ero ancora uscito dal palazzo, un mero monumento ad una gloria immeritata. Tornai indietro fino a raggiungere il nostro studio. Spalancai la porta, ma tu non eri lì dentro. Dietro quell’enorme scrivania intarsiata si aprivano due finestre. Nell’attesa guardai fuori. La strada pullulava di guardie che facevano rientrare i civili nelle loro case. Tra un’abitazione e l’altra erano affissi i nostri stemmi, era il giorno della nostra incoronazione. Non c’era nessuno più potente di noi, forse solo gli dei, ma tu avresti spodestato anche quelli. Dovevamo essere fermati.

Entrasti con il tuo solito passo fiero ed elegante. Quando mi voltai, vidi i centinaia di petali rossi che avevano invaso lo studio. Le mappe che ricoprivano le pareti, con i territori sotto il nostro dominio colorati di nero, erano state lacerate dai fiori. 

«Cosa sono questi?» domandasti con fastidio. Con uno schiocco di dita tutti i gigli presero fuoco, ma nessuno sembrava arrendersi al calore. «Cosa ci fai qui, amore?»

Deglutii.

«Ti è successo qualcosa, si legge nei tuoi occhi.» La gentilezza nella voce che avevo amato era forzata.

«Dobbiamo fermarci, tutto questo… tutto questo è stato un errore» spiegai balbettante. Il mio mondo era crollato, in un solo attimo. Ero veleno, volevo salvare colei che amavo, ma era lei ad avermi distillato.

«Ma cosa stai dicendo? Non lo vedi? Abbiamo tutto quello per cui abbiamo lottato.» Il luccichio dei tuoi occhi si trasmise ad ogni petalo della corona. Vedevo anche quella sporca di sangue. L’affresco che raffigurava il sole levante sulla parete dietro di te ti circondava come una aureola, ma sembrava un’eclissi.

«No, no. È tutto sbagliato, questo non è quello che volevamo. Noi non eravamo questo. Cosa siamo diventati?» Tremavo come non mai, anche nelle più aspre guerre nei luoghi più gelidi non mi ero sentito così. «Cosa siamo diventati?»

«Divinità» sussurrasti. Un sorriso perverso ti solcò il volto. Ti avvicinasti a me e vidi nei tuoi occhi la verità. 

Ti avevo persa, le leggende erano vere. Altri fiori sbocciarono. La te che avevo conosciuto, di cui mi ero innamorato, era un’altra. Lei aveva speranza, credeva in ciò che faceva e voleva un mondo migliore per noi. Lei voleva un mondo dove il nostro amore fosse stato al riparo da ogni male, ma quella te che avevo davanti non era altro che una sua copia corrotta, da un potere che nessun umano può sopportare.

«Non era quello che volevamo diventare…» Scossi la testa. «Dovevamo creare il nostro mondo perfetto, non creare altro orrore.»

«Quello che abbiamo adesso è molto meglio. Vieni qui» mi dicesti, allargando le braccia. Ma io avevo paura, sembrava la bocca spalancata di una belva. Rimasi immobile. 

Le tue dita si irrigidirono, gli altri fiori che erano sbocciati si infiammarono. «Amore, ho detto vieni qui.» Era un ordine come quelli che davi agli eserciti senza pietà. La tua unica misericordia era la distruzione e io me ne ero accorto troppo tardi.

Girai intorno alla scrivania e ti raggiunsi barcollante, calpestando i fiori infuocati, vivi come il desiderio di rivederti un’altra volta. Mi lasciai avvolgere dalle tue braccia, ma quell’abbraccio era gelido come la morsa delle onde.

«Sempre insieme, ricordi» bisbigliasti al mio orecchio. Ma per te quella frase non aveva più senso.

«Sempre insieme» ti risposi. Passai la mano sul tuo fianco nel punto in cui sapevo non c’era alcuna protezione. Il tagliacarte sulla scrivania apparve nelle mie mani, trafiggendoti. Feci scorrere la lama, squarciando il velluto della tua veste e ciò che si celava sotto.

Un gorgoglio uscì dalla tua bocca e mi gettasti all’indietro. «Come osi?» Il tuo urlo mi spezzò il cuore. Mentre ti afflosciavi a terra la tua mano scattò nell’aria, fendendola con precisione. Schegge di ghiaccio mi si gettarono contro. La corona rotolò a terra sbattendo contro la parete.

Controllai una lingua della tempesta di fuoco che si abbatteva invano sui fiori e le scaglie si sciolsero in essa. 

Eri rannicchiata a terra, debole come non lo eri mai stata. Mi avvicinai, le lacrime evaporavano tra le fiamme per terra. Ti strinsi tra le braccia, portando la tua testa al mio petto, il tuo fiato sempre più corto. Il sangue mi macchiò il ventre.

«Cosa siamo diventati, Clelia?» 

Tu mi guardasti negli occhi, il blu era nascosto da fitte lacrime. «Mostri.» Tutti i fiori appassirono all’unisono, estinguendo le fiamme. Le leggende si sbagliavano, la te che ho amato l’ho rivista un’ultima volta.

Singhiozzai sul tuo corpo freddo, avvolto dal tuo sangue caldo. Poi mi alzai, distendendoti con delicatezza sul pavimento. Mi diressi alla finestra, la gloria delle nostre conquiste era diventata inutile in un secondo, senza di te nulla aveva più senso. Il mio riflesso mi consegnò uno sguardo di compassione. Nemmeno io potevo convivere con chi ti aveva uccisa, quello non potevo essere io. I gigli rossi sbocciarono tra i miei capelli biondi, uscirono dalle mie labbra sottili. I fiori mi avvolsero con i loro steli fragili e i loro petali cremisi. Non c’era nessuno più forte di noi, nemmeno gli dei, solo noi stessi. Noi eravamo veleno e antidoto.

 

1 Nome scientifico del giglio del ragno rosso

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