Copyright 2024 - Il Liceale

fiamme danzanti

Fiamme danzanti

 

Il fumo si alzava fino alle nuvole grigie, una tempesta incombeva. I rombi di tuoni in avvicinamento erano accompagnati dalle grida rauche della ragazza legata al palo al centro della piazza. Le sue lacrime non facevano in tempo a scendere che venivano divorate dalle fiamme danzanti. Le unghie sembravano fondersi sulle sue dita mentre sprecava il poco fiato che le restava, ormai solo fuliggine, per implorare pietà. 

La folla inveiva contro di lei. «Strega!» Sassi nelle fiamme. «Meretrice di Satana!» Qualcuno gettava dei rami per ravvivare la pira. Le fiamme crescevano, mai sazie di quel banchetto di carne e legno.

Il sacerdote stringeva il suo crocifisso dorato. Le sue labbra rugose si muovevano in una frenetica preghiera. Le sue dita nodose tremavano. «Dio perdono, Dio perdono» bisbigliava.

Una saetta brillante precedette la pioggia. Le persone si allontanarono, coprendosi il capo con le braccia. Il loro spettacolo era finito, il fuoco si stava estinguendo. Quando il rogo si spense totalmente, rivelò l’intero corpo della ragazza. La pelle annerita si era consumata tanto da rivelare le ossa, della chioma corvina non rimaneva altro che cenere.

Il sacerdote scrutò con diffidenza l’unica donna rimasta, sperava che quelle gocce che vedeva sulle sue guance fossero acqua piovana e non lacrime. Chi si dispiacerebbe per la giusta eliminazione di una sporca strega? Ormai la pioggia era fitta e si allontanò, dando un ultimo sguardo alla donna.

Quella lo guardò procedere claudicante fino alle alte porte della chiesa. Le ante pesanti cigolarono per farlo entrare. Si voltò di nuovo verso la ragazza, o almeno quel che ne rimaneva, e si scostò le lacrime da sotto gli occhi neri. Un’altra innocente data in pasto alla morte. Un’altra vittima di quella stupidità. Lei non poteva più accettarlo, in fondo era anche colpa sua, era stata giustiziata per un reato che lei aveva commesso. Dovette trattenersi per controllare i flussi di energia feroci che scorrevano nelle sue vene, già una volta si era lasciata andare e aveva davanti le conseguenze. 

Per tutta la sua vita si era nascosta, non per vergogna, in lei c’era solo fierezza, ma per paura di fare quella stessa fine. Non sapeva se esistesse quel Dio che portavano al collo gli abitanti del villaggio, ma quello che sapeva era ciò che lei era in grado di fare. Le sue mani erano capaci di miracoli, non sapeva se venissero proprio da quel Dio, ma era arrivato il momento di usarli. Era stanca di rimanere inerme quando lei aveva così tante possibilità. Forse lei era la salvatrice di tutte quelle vite innocenti, forse era lei che doveva vendicarle. Quei testimoni che avevano incolpato una povera ragazza di stregoneria dovevano essere puniti. Meritavano una punizione, se quel Dio non aveva intenzione di darla, c’era lei, forse… forse era quello il suo scopo. Forse era quello il motivo delle sue doti. 

Si asciugò di nuovo le lacrime, non c’era tempo per commiserarsi, doveva solo agire. Corse verso il bosco, la terra fangosa le macchiò la gonna. Lontana da quelle case sentiva già il suo potere crescere, ascoltando i sussurri di tutte quelle piante. Un grugnito la fece arrestare. Un’idea attraversò fulminea la sua mente. «La fortuna è dalla mia parte» sussurrò accennando un sorriso.

Attraversò dei cespugli e scoprì un cinghiale intento a mangiare delle bacche bluastre. Alzò il palmo, delle venature luminose percorsero la sua pelle. «Ascolta le mie parole, dolce creatura.» Il suino si immobilizzò come ipnotizzato. La donna si avvicinò ancora di più, accarezzando la corta pelliccia umida. Poggiò la fronte contro quella dell’animale. Tutta la rabbia, tutto il rancore che provava verso quei due testimoni si raggrumarono nel suo cervello. Dovevano soffrire

Quando staccò la fronte e vide di nuovo il cinghiale, sorrise soddisfatta. Un nero pece tingeva la sua pelliccia e due rossi cerchi fiammanti roteavano intorno agli occhi. «E ora vai! Vai e portali da me!» ordinò. L’animale grugnì feroce e partì alla carica verso il villaggio.

La strega iniziò a camminare in cerchio, recitando delle formule con voce soave, il suo tono era dolce come in una nenia. «O albero, concedimi un po’ della forza delle tue vigorose radici. O terra, dammi appoggio in questa impresa. O erba, sacrifica il tuo bel colore per me.» Le venature luminose sulle sue mani brillavano sempre più forte, le gocce di pioggia risplendevano creando stupendi riflessi. Sul terreno si delineò un disegno di luce che poi scomparve. 

La donna si portò le mani al petto. «Mi dispiace…» disse asciugandosi le lacrime. Vendicare quella povera ragazza era il minimo che poteva fare dopo quello che le aveva fatto. Voleva solo guarire la madre sofferente, ma era stata incauta. Una malattia non sparisce in un giorno, l’aveva salvata da quel male tremendo solo per farle vedere la figlia venir rinchiusa e torturata. 

Il rumore di passi la fece tornare alla realtà e si nascose dietro un albero. Il cinghiale inferocito passò al suo fianco rapido, scomparendo nel buio della foresta. I due testimoni ed il prete si fermarono per riprendere fiato.

«Venerando Padre, lo abbiamo perso di vista» disse uno dei due, tendendo la balestra. 

Il prete lo guardò con rabbia. «Incapaci, quella bestia del diavolo ci tormenterà. Che il buon Dio ci perdoni.» 

«Cosa facciamo, Padre?» chiese preoccupato l’uomo più basso.

Il sacerdote si girò con sdegno, facendo segno di seguirli per tornare indietro. 

Le labbra della strega si schiusero e le sue parole si propagarono in ogni goccia di pioggia, come un coro di mille voci. «Fermi!» Il trio sgranò gli occhi con un sussulto. 

La donna strinse i pugni e delle radici sfondarono il terreno, afferrando le gambe degli uomini. Come un serpente che stritola la propria preda li portarono a terra, avvolgendoli in spire. Non importava quanto si dimenassero, non potevano sfuggire da quella morsa. 

«E ora danzate!» L’ordine echeggiante diede fuoco all’erba nel cerchio che aveva descritto. I corpi degli uomini furono coperti dalle fiamme. 

Le loro grida furono soffocate dalle radici, che graffiavano le loro labbra. La lana ruvida dei loro vestiti premeva contro la loro pelle mentre si incendiava. 

Quando anche quelle fiamme cessarono di bruciare, la donna uscì dal suo nascondiglio, passando vicino ai tre cadaveri. La mano del sacerdote le afferrò la caviglia. Si girò di scatto, guardando il corpo ustionato. 

«Tu… tu sei la strega! Dio… ti maledica» sospirò il prete con una voce a malapena udibile. L’oro incandescente del suo crocifisso marchiava il suo petto.

La donna scosse il piede, liberandosi dalla debole presa. Procedette indifferente verso il villaggio, sporca di cenere. Un’orda di vermi sbucò dal terreno famelica, ricoprendo istantaneamente i cadaveri. Ogni lacrima che cadeva sul terreno faceva sbocciare una minuscola margherita. «Mi dispiace…» sussurrò, le urla di quel giorno rimbombavano nella sua testa.

Michel Costantini

Incubi d'oro

Incubi d’oro

I sogni mi avevano da sempre affascinata, li consideravo una porta su realtà infinite. Ma più crescevo e più mi domandavo se fosse possibile controllarli, piegarli a mio piacimento. Dopo tante ricerche a quanto pare la risposta era… sì. Non esitai un attimo a provare. Non importava quante volte fallissi, lasciandomi trasportare da quella corrente tremenda di immagini sconnesse, non mi arresi mai. Sapevo che si facevano ogni giorno più vividi, più facili da ricordare. Fino a quando non trovai la loro ultima debolezza e si inchinarono al mio volere.

Era una sera come molte altre, il termine di una giornata né troppo stressante, né troppo entusiasmante. Sfilai la spilla a forma di piuma dai miei capelli, lasciandoli ricadere sulle mie spalle, come un velo nero. Mi stesi sul letto, il tepore delle coperte mi avvolse, mentre le luci si facevano più soffuse. Presi l’anello sul comodino, nascosto sotto le mie collane. Lo infilai al dito, concentrandomi su ogni suo dettaglio, dovevo ricordarlo bene. La piccola stella di cristallo rifletteva la luce. Non avrei mai dimenticato la felicità di quanto mia madre me lo aveva regalato ad un compleanno, la targhetta recitava: «alla mia piccola sognatrice». Le mie labbra sottili si incurvarono al ricordo, a cui si sommavano quelli di tutte le mattine in cui da piccola le avevo dettato tutto ciò che riuscivo a ricordare delle mie avventure notturne. I diari su cui le appuntavo occupavano un’intera mensola sulla mia scrivania, insieme alla mia collezione di acchiappasogni. 

Scivolando ancora più sotto le coperte, iniziai a contare, scadenzando ogni numero con un sospiro. Ben presto, mi addormentai.

Quando aprii gli occhi, non ero più nella mia camera. La visione che avevo davanti mi lasciò a bocca aperta e le mie labbra si schiusero per davvero. Mi guardai subito le mani, il mio anello era sull’indice. Ce l’avevo fatta, stavo decidendo cosa fare. Iniziai a correre, osservando estasiata intorno. In una coltre di nuvole bianche, soffici come zucchero filato, si apriva un sentiero completamente ricoperto da acqua candida, ad ogni mio passo la superficie quieta si increspava, propagando delicate onde tutt’intorno al mio piede nudo. 

Vicino casa mia c’era un parco che adoravo visitare in primavera per vedere i ciliegi in fiore, ma non erano nulla in confronto a quelli che avevo davanti in quel momento. Erano enormi, il legno scuro del tronco era incoronato da una rigogliosa fronda rosa, centinaia di fiori erano sbocciati in ogni punto. Tra la pioggia di petali, che si posavano sull’acqua con grazia, svolazzavano libellule trasparenti, filamenti dorati attraversavano le loro ali veloci. Delle gru volteggiavano alte nel cielo, che sembrava non avere limiti, le loro piume bianche sembravano splendere e la striscia rossa sopra sulla loro fronte sembrava un rubino prezioso. Più andavo avanti e più rimanevo stupita di quanto quel posto fosse bello, ma volevo sapere dove portasse quel sentiero che stavo percorrendo.

Non impiegai molto ad arrivare al suo termine ed una volta giunta lì, rimasi esterrefatta dalla bellezza di quel maestoso albero che si ergeva di fronte a me. Era più grande e antico di tutti gli altri. I suoi nodosi rami non erano avvolti da una fronda rosa, ma da foglie verdi, ricche di ciliegie rosse come il cuore della fiamma più calda. Provai a raggiungerne una e la afferrai. Con uno strappo secco rimase nelle mie mani. La portai alla bocca e la morsi, pronta a gustare la polpa succosa. Ma un sapore metallico si propagò nella mia bocca. Sputai disgustata e mi toccai le labbra, quello che le macchiava era… sangue. 

Indietreggiai. Tutte le ciliegie dell’albero iniziarono a marcire, rapidissime. Si scioglievano in umori di sangue, colando sulla punta dei rami, fino a mescolarsi all’acqua del terreno. Lo sgomento corrugò il mio volto. Quella pozza vermiglia ribolliva ad ogni goccia. Il liquido si addensava, aggregandosi in una figura umanoide, ma gigante. 

Feci altri passi indietro, mentre quel colosso si alzava sempre più in alto. Le mie braccia tremavano. Finalmente la creatura si delineò totalmente. Un volto grottesco era incorniciato da una fitta chioma bruna, da cui spuntavano due corna ricurve. La bocca enorme era aperta in un’espressione turpe, quattro lunghe zanne fuoriuscivano da essa. Impugnava una spada di dimensioni ciclopiche. La pelle rossa era attraversata da tatuaggi contorti. Il suo ruggito fece tremare l’aria.

Mi guardai le mani, aggrappandomi all’unico briciolo di forza che credevo di avere, l’anello era lì. Provai a toccarlo, chiudendo gli occhi, ma non successe nulla. Tentai ancora e ancora, ma era inutile. La spada si stava dirigendo verso di me letale. Mi voltai, ansimante, ed iniziai a correre.

Lo sentivo dietro di me, i suoi passi scuotevano il terreno, gli schizzi d’acqua si alzavano bagnandomi i polpacci. I petali rosa si seccavano intorno a me, divenendo grigi. Provavo ancora a toccarmi l’anello, avevo letto che toccare un oggetto indossato prima di addormentarmi mi avrebbe dovuta far svegliare, ma non succedeva nulla. Il terrore prese il sopravvento, facendomi inciampare.

Caddi a terra, i palmi nell’acqua. Indietreggiai spingendo con i talloni, guardando dritto negli occhi senza iridi quella creatura. La sua spada svettava contro il cielo. Non potevo sperare di controllare i sogni senza che loro si ribellassero. Tastai frenetica l’anello, graffiandomi le dita contro il cristallo. Le lacrime scivolarono sulle mie guance, chiusi i miei occhi sottili appena vidi la lama scendere sopra di me. In quel nero senza fondo che celava l’esterno capii qualcosa. Quella era la mia realtà, il mio sogno, era sotto il mio controllo. Portai le mani in alto, immaginando di creare una barriera di rami. Sentii un tonfo, avevo ancora gli occhi chiusi per la paura, ma li riaprii lentamente. La spada del mostro era incastrata in un muro di corteccia. Sorrisi. 

Allargai le braccia, pensando agli ordini da impartire a quella realtà che non poteva far altro che obbedirmi. Mi librai in aria, senza peso, e tutti i petali si bloccarono sospesi, congelandosi appuntiti. Strinsi i pugni con uno scrocchio di dita e un’ondata di schegge di ghiaccio si abbatté sul colosso. 

Beffarda mi riabbassai sul terreno, guardando soddisfatta la nuvola di neve che si era alzata. Successe in un istante. Prima era una nebbia bianca, poi era la spada nel mio petto. Una bolla di sangue uscì dalla mia bocca, insieme ad un gemito. L’aria mi mancava. Caddi in avanti. L’elsa urtò il terreno, conficcando ancora più a fondo nel mio corpo la lama, che fuoriuscì dalla schiena. I miei occhi si chiusero.

Mi svegliai urlante dal letto, toccandomi il petto. Non era successo nulla, mi ripetevo ansimante. Sentii i passi di mia madre avvicinarsi. Guardai le mie mani, l’anello non c’era. Era caduto a terra. Avevo perso la mia ancora di ritorno, ma forse, se avessi riprovato un’altra volta… 

La porta si spalancò, lasciando entrare mia madre. «Cosa è successo?» domandò ansiosa.

«Nulla, nulla, solo un brutto sogno.» Sorrisi.

«Oh, menomale» disse, girandosi. La sua ombra proiettata dalla luce del corridoio era… disumana. 

«M-mamma…» balbettai.

Si voltò di nuovo verso di me. Dalla sua fronte uscivano due corna appuntite. «Cosa c’è, mia piccola sognatrice?»

Puntai lo sguardo all’anello per terra, ma quello si dissolse all’istante.

Una voce rauca animò la bocca di quella che credevo fosse mia madre. «Oh, non stavolta, ormai non puoi fuggire. Incubi d’oro, piccola intrusa.»

 

Michel Costantini

Altri articoli...

  1. The library of broken bones
f t g m