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Incubi d'oro

Incubi d’oro

I sogni mi avevano da sempre affascinata, li consideravo una porta su realtà infinite. Ma più crescevo e più mi domandavo se fosse possibile controllarli, piegarli a mio piacimento. Dopo tante ricerche a quanto pare la risposta era… sì. Non esitai un attimo a provare. Non importava quante volte fallissi, lasciandomi trasportare da quella corrente tremenda di immagini sconnesse, non mi arresi mai. Sapevo che si facevano ogni giorno più vividi, più facili da ricordare. Fino a quando non trovai la loro ultima debolezza e si inchinarono al mio volere.

Era una sera come molte altre, il termine di una giornata né troppo stressante, né troppo entusiasmante. Sfilai la spilla a forma di piuma dai miei capelli, lasciandoli ricadere sulle mie spalle, come un velo nero. Mi stesi sul letto, il tepore delle coperte mi avvolse, mentre le luci si facevano più soffuse. Presi l’anello sul comodino, nascosto sotto le mie collane. Lo infilai al dito, concentrandomi su ogni suo dettaglio, dovevo ricordarlo bene. La piccola stella di cristallo rifletteva la luce. Non avrei mai dimenticato la felicità di quanto mia madre me lo aveva regalato ad un compleanno, la targhetta recitava: «alla mia piccola sognatrice». Le mie labbra sottili si incurvarono al ricordo, a cui si sommavano quelli di tutte le mattine in cui da piccola le avevo dettato tutto ciò che riuscivo a ricordare delle mie avventure notturne. I diari su cui le appuntavo occupavano un’intera mensola sulla mia scrivania, insieme alla mia collezione di acchiappasogni. 

Scivolando ancora più sotto le coperte, iniziai a contare, scadenzando ogni numero con un sospiro. Ben presto, mi addormentai.

Quando aprii gli occhi, non ero più nella mia camera. La visione che avevo davanti mi lasciò a bocca aperta e le mie labbra si schiusero per davvero. Mi guardai subito le mani, il mio anello era sull’indice. Ce l’avevo fatta, stavo decidendo cosa fare. Iniziai a correre, osservando estasiata intorno. In una coltre di nuvole bianche, soffici come zucchero filato, si apriva un sentiero completamente ricoperto da acqua candida, ad ogni mio passo la superficie quieta si increspava, propagando delicate onde tutt’intorno al mio piede nudo. 

Vicino casa mia c’era un parco che adoravo visitare in primavera per vedere i ciliegi in fiore, ma non erano nulla in confronto a quelli che avevo davanti in quel momento. Erano enormi, il legno scuro del tronco era incoronato da una rigogliosa fronda rosa, centinaia di fiori erano sbocciati in ogni punto. Tra la pioggia di petali, che si posavano sull’acqua con grazia, svolazzavano libellule trasparenti, filamenti dorati attraversavano le loro ali veloci. Delle gru volteggiavano alte nel cielo, che sembrava non avere limiti, le loro piume bianche sembravano splendere e la striscia rossa sopra sulla loro fronte sembrava un rubino prezioso. Più andavo avanti e più rimanevo stupita di quanto quel posto fosse bello, ma volevo sapere dove portasse quel sentiero che stavo percorrendo.

Non impiegai molto ad arrivare al suo termine ed una volta giunta lì, rimasi esterrefatta dalla bellezza di quel maestoso albero che si ergeva di fronte a me. Era più grande e antico di tutti gli altri. I suoi nodosi rami non erano avvolti da una fronda rosa, ma da foglie verdi, ricche di ciliegie rosse come il cuore della fiamma più calda. Provai a raggiungerne una e la afferrai. Con uno strappo secco rimase nelle mie mani. La portai alla bocca e la morsi, pronta a gustare la polpa succosa. Ma un sapore metallico si propagò nella mia bocca. Sputai disgustata e mi toccai le labbra, quello che le macchiava era… sangue. 

Indietreggiai. Tutte le ciliegie dell’albero iniziarono a marcire, rapidissime. Si scioglievano in umori di sangue, colando sulla punta dei rami, fino a mescolarsi all’acqua del terreno. Lo sgomento corrugò il mio volto. Quella pozza vermiglia ribolliva ad ogni goccia. Il liquido si addensava, aggregandosi in una figura umanoide, ma gigante. 

Feci altri passi indietro, mentre quel colosso si alzava sempre più in alto. Le mie braccia tremavano. Finalmente la creatura si delineò totalmente. Un volto grottesco era incorniciato da una fitta chioma bruna, da cui spuntavano due corna ricurve. La bocca enorme era aperta in un’espressione turpe, quattro lunghe zanne fuoriuscivano da essa. Impugnava una spada di dimensioni ciclopiche. La pelle rossa era attraversata da tatuaggi contorti. Il suo ruggito fece tremare l’aria.

Mi guardai le mani, aggrappandomi all’unico briciolo di forza che credevo di avere, l’anello era lì. Provai a toccarlo, chiudendo gli occhi, ma non successe nulla. Tentai ancora e ancora, ma era inutile. La spada si stava dirigendo verso di me letale. Mi voltai, ansimante, ed iniziai a correre.

Lo sentivo dietro di me, i suoi passi scuotevano il terreno, gli schizzi d’acqua si alzavano bagnandomi i polpacci. I petali rosa si seccavano intorno a me, divenendo grigi. Provavo ancora a toccarmi l’anello, avevo letto che toccare un oggetto indossato prima di addormentarmi mi avrebbe dovuta far svegliare, ma non succedeva nulla. Il terrore prese il sopravvento, facendomi inciampare.

Caddi a terra, i palmi nell’acqua. Indietreggiai spingendo con i talloni, guardando dritto negli occhi senza iridi quella creatura. La sua spada svettava contro il cielo. Non potevo sperare di controllare i sogni senza che loro si ribellassero. Tastai frenetica l’anello, graffiandomi le dita contro il cristallo. Le lacrime scivolarono sulle mie guance, chiusi i miei occhi sottili appena vidi la lama scendere sopra di me. In quel nero senza fondo che celava l’esterno capii qualcosa. Quella era la mia realtà, il mio sogno, era sotto il mio controllo. Portai le mani in alto, immaginando di creare una barriera di rami. Sentii un tonfo, avevo ancora gli occhi chiusi per la paura, ma li riaprii lentamente. La spada del mostro era incastrata in un muro di corteccia. Sorrisi. 

Allargai le braccia, pensando agli ordini da impartire a quella realtà che non poteva far altro che obbedirmi. Mi librai in aria, senza peso, e tutti i petali si bloccarono sospesi, congelandosi appuntiti. Strinsi i pugni con uno scrocchio di dita e un’ondata di schegge di ghiaccio si abbatté sul colosso. 

Beffarda mi riabbassai sul terreno, guardando soddisfatta la nuvola di neve che si era alzata. Successe in un istante. Prima era una nebbia bianca, poi era la spada nel mio petto. Una bolla di sangue uscì dalla mia bocca, insieme ad un gemito. L’aria mi mancava. Caddi in avanti. L’elsa urtò il terreno, conficcando ancora più a fondo nel mio corpo la lama, che fuoriuscì dalla schiena. I miei occhi si chiusero.

Mi svegliai urlante dal letto, toccandomi il petto. Non era successo nulla, mi ripetevo ansimante. Sentii i passi di mia madre avvicinarsi. Guardai le mie mani, l’anello non c’era. Era caduto a terra. Avevo perso la mia ancora di ritorno, ma forse, se avessi riprovato un’altra volta… 

La porta si spalancò, lasciando entrare mia madre. «Cosa è successo?» domandò ansiosa.

«Nulla, nulla, solo un brutto sogno.» Sorrisi.

«Oh, menomale» disse, girandosi. La sua ombra proiettata dalla luce del corridoio era… disumana. 

«M-mamma…» balbettai.

Si voltò di nuovo verso di me. Dalla sua fronte uscivano due corna appuntite. «Cosa c’è, mia piccola sognatrice?»

Puntai lo sguardo all’anello per terra, ma quello si dissolse all’istante.

Una voce rauca animò la bocca di quella che credevo fosse mia madre. «Oh, non stavolta, ormai non puoi fuggire. Incubi d’oro, piccola intrusa.»

 

Michel Costantini

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