Dolce, soave, irraggiungibile voce
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- Categoria: I racconti di Michel
- Pubblicato: Martedì, 18 Maggio 2021 12:27
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Dolce, soave, irraggiungibile voce
La stanza era fredda, vuota, buia. Le finestre erano chiuse da settimane. Il velluto damascato delle tende pesanti non faceva passare nemmeno un raggio di luce. I cristalli dei lampadari non riflettevano più alcuna fiamma vivace di candela.
Nelle mani di Lewis era stretto un grammofono, l’ottone arrugginito ondeggiava con il suo passo. Lo posò sul maestoso pianoforte a coda nell’angolo dell’immensa sala. Il tonfo fece eco sul soffitto affrescato, la foglia d’oro spogliata del suo luccichio dall’oscurità. Spostò lo sgabello, affondando nel cuoio. I suoi occhi erano rossi e gonfi, il suo viso rigato dalle lacrime come fiumi che scavano il proprio letto nella terra.
Allungò la mano verso l’asticella del macchinario, facendo poggiare la punta sul disco nero. Un ronzio uscì dalla tromba. Portò le mani sulla tastiera, le sue dita trovarono i tasti come se non fossero mai state in altri luoghi, e iniziò a suonare, seguito da una voce bellissima. Una voce limpida, come il mare calmo, soave, come il pianto degli angeli.
Voce e melodia riempirono il gelo frizzante della stanza.
Lewis portò la testa all’indietro. I lunghi capelli si alzarono dietro di lui, bagnandosi di lacrime salate. Viaggiava sulla tastiera come un cavaliere in cerca dell’amata. Ogni tasto nero era un ostacolo, ma li superava tutti, nella speranza di raggiungere quella voce così lontana. E quando sembrava mancare solo un passo, tornava indietro, brusco, grave. E il suono di un basso profondo come l’abisso sfasciava il silenzio.
La voce lo accompagnava, richiamandolo a salire, a tornare alla dolcezza degli acuti, ma anche quella talvolta si abbassava. Si fermava, lasciando attimi di terrore per l’eroe della tastiera, sperduto senza più guida, e allora iniziava una follia di salti. Viaggi oscuri nelle foreste più tetre, traversate di cieli stellati. Alti e bassi si alternavano, fino al ritorno della voce amata a fare di nuovo da guida.
Una mano rimaneva sicura e solida, l’altra correva su mille tasti, e poi si davano il cambio, ma quella voce era sempre lontana.
Lewis alzò gli occhi doloranti sullo sparito di cui non aveva bisogno. Aveva suonato mille volte quel brano, il suo sangue scorreva seguendo quel ritmo. Le stupende parole che la madre cantava erano impresse nella sua memoria. E quel suono interrotto da disturbi non era altro che un’infima copia della bellezza che un tempo aveva avuto la fortuna di udire.
Lo spartito ricambiò il suo sguardo, con quell’oceano di segni. Mille erano i cerchi che vagavano per il mare di linee, che cercavano di tenerli in ordine, ma loro fuggivano quanto più potevano. Issavano vele per aumentare la loro velocità, si assottigliavano per contrastare con il silenzio la tempesta, si svuotavano per mantenersi solide nella marea.
E poi, quando Lewis chiuse gli occhi, si staccarono, libere finalmente da quella prigione di linee. Migrarono come uccelli in volo dalla carta per arrivare all’aria, lentiggini di inchiostro. Anche se non c’era luce, Lewis poteva vederle risplendere.
La voce melodiosa si fece più malinconica, mentre le note si allungavano nel vuoto della stanza. Come sotto l’azione di un pennello di un sapiente pittore, presero mille forme diverse.
Prima erano un donna, bellissima in ogni suo punto. Il sorriso gentile contornato di rosa, i capelli raccolti in una nera sfera, due occhi del colore delle foglie autunnali, quelle che si frantumano al minimo tocco. Ed anche lei era delicata come una foglia, una voce bellissima, che la tosse rompeva sadica.
Lewis voleva allungare la mano verso quella figura, ma ci pensarono le note a farlo, lasciandogli il compito di continuare a suonare. Un bambino si formò ai piedi della donna, con una manina stretta alla sua gonna. Guardava ammaliato la madre, gli occhi incantati mentre la vedeva cantare.
L’eroe non si sarebbe dovuto fermare, la donzella era vicina, poteva sentire le parole di speranza dalla sua introvabile torre, che forse si celava dietro il prossimo tasto nero.
Ma ecco che le note presero nuovo aspetto, e tornò di nuovo quel basso capace di far crollare imperi.
La donna era inginocchiata, la bocca coperta da un fazzoletto ricamato, del rosso era sbiadito in alcuni punti. E quel bambino non poteva far altro che rannicchiarsi vicino a lei, tentato di coprirsi le orecchie. Ma si era ripromesso che come avrebbe ascoltato le canzoni, avrebbe avuto il coraggio di esserci in quei momenti.
Dopo la tempesta, esce sempre il sole, e così l’eroe raggiunse di nuovo i pascoli più dolci. Parole piene di gioia e di amore, ecco cosa sentiva, e le note le seguirono anch’esse. Centinaia di fiori di ogni forma accarezzavano i piedi della madre e del figlio. Nessun fazzoletto macchiato in vista, solo labbra che si schiudevano per formare melodie incantate. Le manine del bambino battevano felici.
Lewis sorrise e le lacrime si raccolsero sugli angoli della sua bocca incurvati verso l’alto.
Un fremito interruppe la voce del grammofono, come un graffio violento ed improvviso. Era già tardi quando quel disco era stato registrato. E tutto si abbassò, tutto si fece più ruvido, ma non si fermò. L’eroe lasciò le praterie verdi e tornò in quei reami oscuri, in cui era sicuro che non si trovasse la sua amata. Anche le note lo seguirono.
Un letto a baldacchino occupava il centro della sala. La sala in cui un tempo si erano ospitati balli. I vestiti danzavano con il suono di quella voce che nel grammofono dava una pallida idea della sua reale bellezza. E la mano della donna a cui apparteneva era sempre stretta sulla spalla del figlio, seduto al pianoforte. Non c’erano più applausi, vestiti e feste lì, solo vuoto. E ora un letto, tra le cui coperte si nascondeva l’esile corpo di una donna. Un’altra figura era in piedi vicino ad esso, stringendo forte la mano senza forze. Non era più un bambino, ma rimaneva suo figlio.
Quando quell’ultimo respiro fu esalato dalla donna, più sereno di qualunque fosse mai uscito dalle sue labbra, in quella recita delle note fuggite dallo spartito, un silenzio atroce catturò la sala nella sua tirannia. Le mani di Lewis si erano alzate dalla tastiera, pronte a ricadere violente sui tasti, in un accordo che avrebbe penetrato i muri più possenti. La caduta di quelle dita accompagnò quella del figlio fatto di note sul pavimento, che ora nascondeva il volto nelle coperte, bagnandole di lacrime.
L’eroe aveva esaurito le forze, ma non aveva trovato la sua amata e non sentiva più la sua voce, non aveva senso continuare. Così le note tornarono nella gabbia dello spartito.
Lewis si alzò dallo sgabello. Mise fine al ronzio del grammofono e prese l’urna che sedeva sull’altro lato del pianoforte. I motivi floreali avevano subito lo stesso fato degli affreschi del soffitto, condannati all’oscurità, ma stavano per rivedere la luce. Procedette fino alla parete di fondo, una porta era nascosta dietro due tende. La spalancò, facendo cigolare le ante. Il sole invase la stanza, avido di quell’ambiente da cui era stato allontanato per così tanto.
Di fronte al ragazzo si distendeva un lungo patio in pietra, la balconata che lo circondava dava sul mare. I movimenti delicati dell’acqua riflettevano la luce come squame brillanti. Lewis raggiunse la scalinata che portava alla spiaggia. Alla salsedine che incrostava i gradini si aggiunsero le sue lacrime.
Ormai affondava le scarpe nella sabbia, il mare provava a ghermirle, distendendosi con tutte le sue forze, ma poi tornava indietro. Mise la mano sul coperchio dell’urna, poggiandolo a terra. Allungò le mani in avanti e ceneri grigie iniziarono a cadere nell’acqua.
«Grazie, mamma» disse Lewis. La sua voce era infranta e rauca, ma un sorriso increspava le sue guance. Quando anche l’ultimo granello si disperse nell’oceano, richiuse l’urna.
La prima cosa che avrebbe fatto appena tornato in casa sarebbe stata aprire le tende. Ma per il momento si limitò a stringere il ciondolo che portava sul petto. La foto che nascondeva era ben protetta dal calore della sua mano. E anche se era solo una foto, la poteva sentire battere vicino al suo cuore.
Michel Costantini