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Ladre di nettare

Ladre di nettare

Non c’era cosa al mondo che la regina della notte amava più del suo giardino eterno. Era la sua terra, il suo regno, il luogo in cui era nata e in cui i suoi giorni sarebbero finiti. Curarlo e proteggerlo non era solo il suo dovere in quanto regina, ma la sua vocazione. Senza il giardino eterno, sarebbe stata una regina senza regno, un fiore senza radici. Eppure anche il suo immenso amore non fu abbastanza per evitare di essere cieca di fronte ai bisogni delle sue piante. 

Ricordava poco di quando era ancora un fiore, un comune tulipano tra le centinaia di piante che popolavano il giardino. Sapeva solo che, dopo una miracolosa alba, era sbocciata in un nuovo corpo, eletta dalla precedente regina come erede al trono della notte. Il suo sguardo poteva scrutare i campi sterminati, uno stupendo oceano di colori di cui prima aveva fatto parte. Le sue radici erano state sostituite da gambe, mentre le sottili foglie sul suo stelo erano diventate braccia e mani. Solo la sua testa era rimasta una maestosa corona di petali, viola intenso come una notte senza stelle. 

Con il suo nuovo corpo, poteva finalmente raggiungere il ruscello di cui prima poteva solo sentire il flebile fruscio. La sua acqua era fresca e limpida, capace di nutrire l’intero giardino. Finalmente era alta abbastanza per ammirare le montagne erbose che circondavano il giardino come delle salde mura. Finalmente poteva avventurarsi attraverso i boschi di cui aveva visto solo le fronde più alte, mosse dal vento in una stupenda danza. Gli alberi possedevano tronchi e frutti, non erano solo foglie. C’era un mondo inesplorato da scoprire, un regno da conoscere e amare.

Ma fu proprio in mezzo a quegli alberi che un odio innato si risvegliò dentro di lei. Il ronzio delle api catturò la sua attenzione. Era così fastidioso, così opprimente. Non capiva da dove provenisse, né riusciva a vedere alcuna ape. Il battito frenetico delle loro ali però non cessava. Le api erano delle ladre di polline, una irritante pestilenza che torturava i fiori. Con le loro zampe e corpi pelosi solleticavano i petali, graffiandoli con le loro ali, simili a schegge di cristallo. Il nettare apparteneva ai fiori, chi aveva dato loro il diritto di rubarlo?

Non avrebbe permesso alle api di continuare la loro tremenda piaga sotto il suo regno. Lasciato quel bosco, decretò il suo primo editto: costruire una fontana nei pressi della foresta. 

Aspettò con impazienza che l’opera venisse compiuta. Mentre sorvegliava i lavori, il ronzio delle api la derideva in sottofondo. Più lei le malediceva, più le api si impegnavano a derubare i suoi amati fiori.

Si annidavano tra i petali delle rose come banditi, sorvolavano le fragili margherite come avvoltoi, ondeggiavano tra le primule come lupi famelici. Non c’era un angolo del giardino eterno che non fosse infestato dalle api. Mentre la regina della notte attraversava il suo reame invaso dal nemico, assaporava la sua vendetta e la sua soluzione.

La costruzione della fontana terminò e la regina non esitò un istante prima di versare il nettare più dolce nelle acque zampillanti. Le api ingorde non avrebbero sicuramente rifiutato un tale banchetto. Mentre il profumo inebriante si diffondeva all’interno del bosco, la regina gettò cicuta macinata all’interno della vasca. 

Le api giunsero in sciami, attirate dalla sua trappola, incapaci di resistere al richiamo del polline. La regina le osservava soddisfatta mentre assorbivano il nettare insieme al veleno. Una dopo l’altra, le api interrompevano il loro fastidioso volo, precipitando nell’acqua. Per pochi istanti, la regina potè sentire il vero silenzio, privo del continuo ronzio. Ecco, una volta eliminate tutte le api, il giardino eterno avrebbe prosperato nella quiete pacifica che meritava. 

“È quel che meritate, ladre di nettare,” diceva quando un altro insetto si accasciava sulla superficie dell’acqua, galleggiando come una foglia nera e gialla. 

Passavano i giorni e la fontana si riempiva di api avvelenate, ormai così numerose da occupare quasi l’intera vasca. La regina le gettava via, facendo nuovo spazio per altre vittime della sua trappola, sempre pronte ad arrivare. 

Il ronzio era quasi svanito, solo in prossimità del bosco si poteva ancora sentire. Era arrivato finalmente il momento di gloria per il giardino eterno. Niente più fastidi, niente più ladre. Era regina da poco eppure aveva già liberato il suo regno da una terribile minaccia. Chissà quanto più belli e robusti sarebbero diventati i suoi fiori, carichi di profumato e brillante polline. Era solo momento di aspettare e vedere i frutti che la sua trappola aveva messo in atto. 

Così un giorno si diresse verso l’area più lontana dal bosco, dove le api non si vedevano da tempo. “Arrivo, miei amati fiori, sarete stupendi come non mai.” Ma quando giunse nel roseto, non c’erano più petali dagli sgargianti colori, solo grigiore e boccioli appassiti. Degli steli non erano rimaste che le spine e delle foglie solo ammassi secchi. 

“Cosa vi hanno fatto?” urlò disperata, cercando invano una rosa ancora integra. Era sicuramente opera delle api. Questa era la loro vendetta. Come osavano sfidarla così apertamente nel suo regno? Come osavano distruggere il suo amato giardino? Queste ladre spietate dovevano essere eliminate definitivamente. Se la fontana non era abbastanza, si sarebbe occupata in prima persona del loro sterminio. 

Vagava giorno e notte alla ricerca delle malefiche api. Erano nemici invisibili, difficili da scovare. Sicuramente usavano i loro pungiglioni per avvelenare le piante, come lei aveva avvelenato le loro compagne. Che subdole creature. Era inammissibile lasciarle agire incontrollate. Appena riusciva a trovarle, le schiacciava sotto i suoi piedi, le spremeva tra le sue dita. Più api cadevano nella sua marcia funesta, più i fiori appassivano. 

“Dove siete?” gridava ai campi deserti. Nessun papavero sbocciava accarezzato dai raggi dell’alba. Nessuna bella di notte spalancava i suoi vivaci petali sotto la luce della luna. Nemmeno un singolo dente di leone diffondeva i suoi semi del vento, trasportando desideri e candore. Il giardino eterno stava marcendo, trasformandosi da un arcobaleno di petali a una distesa incolore. Era tutta colpa delle api. Quelle tremende usurpatrici, ladre senza contegno. Non era abbastanza aver tormentato i fiori con il loro ronzio? Non era abbastanza aver rubato polline? Non era abbastanza la devastazione che avevano già seminato?

La regina della notte non conosceva più sonno, più calma. Le sue lacrime bagnavano inutilmente le piante ai suoi piedi, acqua salata che le faceva marcire ancora più in fretta. Distruggere le api fino all’ultima era diventata la sua ossessione. Si spingeva tutti i giorni all’interno del bosco, dove ancora qualche fiore era in grado di resistere. Il ronzio qui era più forte, ma gli alberi erano un labirinto e trovare l’alveare era impossibile. 

Era derisa da quel suono di ali che persistevano mentre il giardino appassiva. Seguiva le tracce di fiori rimasti, calpestando le api che trovava sul suo cammino. Fino a che le poche piante superstiti la portarono ai piedi dell’alveare. Le api uscivano ed entravano da quella massa informe, come un organo infetto che aveva avvelenato l’intero giardino. “Eccovi, ladre maledette!” 

Con tutta la furia e la disperazione che aveva accumulato nel vedere la sua terra marcire, si scagliò contro l’alveare. Le sue dita affondarono nel miele, mentre strappava pezzo per pezzo quegli esagoni perfetti. Mentre le sue mani si chiudevano intorno ai corpi nelle api, in una poltiglia di miele e ali frantumate, i fiori intorno a lei continuavano ad appassire.

La sua ira non si era spenta, ma il ronzio era finalmente terminato. Solo un’ape, diversa dalle altre e più grande, arrancava tra le macerie di quell’enorme alveare. Le zampe non spezzate cercavano di portarla via, al riparo dalla regina della notte. Era inutile, senza le sue ali, quell’ape non aveva speranze di fuggire. 

La regina sollevò i pugni nell’aria, facendoli precipitare sull’ape. Le sue mani erano intrise di miele, i corpi morti degli insetti ancora attaccati ad esso. Anche i petali della sua testa si erano ormai afflosciati, privi del nutrimento che la visione del giardino era in grado di darle. 

Quando si girò, l’ultimo fiore ancora intatto appassì di fronte a lei. Si spezzò un petalo dopo l’altro, il loro blu lasciava posto al grigio. Con questa tremenda visione, la regina della notte ricordò qualcosa che non avrebbe mai dovuto dimenticare. La notte prima della sua trasformazione, un’ape si era poggiata su di lei, solleticandola delicatamente. Con il nettare della precedente regina della notte, l’ape le aveva donato nuova vita. Era grazie alle api che lei era sbocciata quella miracolosa alba. Erano le api a rendere eterno il giardino eterno, non la regina della notte. 

Ora le api non c’erano più, schiacciate tra il miele e i frammenti di un alveare, avvelenate in una fontana ingannatrice. E senza le api, non c’era più un giardino da amare e preservare. Nel silenzio atroce di un regno senza abitanti, la regina della notte ricordò il ronzio di quelle ali operose e non potè far altro che fissare le sue mani, sporche del miele che il giardino eterno non avrebbe mai più prodotto.

Michel Costantini  






















Michel Costantini

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