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Un grigio oceano di città cangianti

Un grigio oceano di città cangianti 

 

Ogni astronauta sa che non esiste cosa più bella di tornare a casa. Si possono vedere infiniti mondi, uno più stupendo del precedente, ma nulla potrà mai superare i paesaggi del proprio pianeta natio. 

Aleri lo sapeva bene. Aveva assistito ai tramonti di Berii, con i suoi due soli ad illuminare le immense distese di erba celeste, punteggiate dall’iridescente vegetazione aliena. Si era svegliata con le albe di Tereda, con l’aspetto violaceo di cui tutto era impregnato. Sessanta anni di viaggi e nuovi pianeti, ma il ricordo di casa non era mai sbiadito. 

Nulla avrebbe mai potuto offuscare i colori della campagna in cui era cresciuta. Il verde ricco dell’erba, il giallo pallido dei campi di grano e un’intera tavolozza di colori per gli animali che aveva cresciuto con amore. Non si era mai abituata agli oceani rossi del pianeta su cui aveva sostato nell’ultimo anno e non riusciva a credere che tra poche ore si sarebbe potuta immergere in un mare blu come il cielo. 

Una vita passata all’insegna dell’esplorazione, ma era tempo di fermarsi. La sua navicella, ormai non nuova come una volta, riusciva ancora a coprire le distanze intergalattiche in tempi brevi, sebbene non potesse essere paragonata alle nuove tecnologie che stavano iniziando a diffondersi. 

Dopo tutto questo tempo non riusciva nemmeno più a ricordarsi perché fosse partita. La sua pelle era ancora liscia e giovane quando aveva messo per la prima volta piede sul pavimento metallico della sua astronave. Le sue lacrime, mentre salutava i suoi genitori, avevano bagnato i fluenti capelli castani di cui ora rimaneva solo una corta chioma grigia. 

Ormai, il peso degli anni gravava sulle sue spalle e non poteva far altro che domandarsi se non fosse stato tutto un errore. Se fosse rimasta sul suo pianeta magari avrebbe trovato quello che aveva cercato invano su tutti gli altri pianeti. Libertà? Felicità? Pace? Non sapeva cosa sperasse di trovare. Non esisteva il pianeta perfetto, di questo era certa. Casa sua tuttavia sembrava avere solo cose belle, o a causa della nostalgia o a causa delle dimenticanza. Eppure qualcosa l’aveva spinta ad andarsene. Ma le rimaneva troppo poco tempo per vivere di rimpianto. La prima regola di ogni astronauta era di partire e non guardarsi mai indietro.

Adesso sulla schermata della sua astronave c’era una sola scritta: CASA. Lampeggiava lentamente, mentre il suo cuore non faceva altro che accelerare. Non poteva smettere di immaginare cosa avrebbe fatto una volta tornata. Sarebbe tornata in campagna? Poteva comprare un piccolo pezzo di terra e qualche animale per produrre tutto il cibo da sola. Solo il tempo conosceva la risposta. Pochi minuti e i motori avrebbero raggiunto la velocità necessaria per fare un salto spaziale di centinaia di anni luce. 

“Ci siamo,” disse, nella lingua che le risultava ormai estranea sulle sue labbra. La sua pelle solleticava, come faceva sempre in prossimità del salto. Si aggrappò più forte ai braccioli del suo sedile, chiudendo gli occhi. “Ci vediamo dall’altro lato.”

Riusciva quasi a sentire l’universo piegarsi intorno a lei, come un foglio strappato e accartocciato. Il nero più assoluto la avvolse e poi un’esplosione di luce. 

Alzò lentamente lo sguardo, il suo navigatore ormai segnava i kilometri e non più gli anni luce per indicare la distanza da casa. Era quasi spaventata di vedere finalmente il pianeta dal suo finestrino, come se potesse essere scomparso del tutto.

Quando i suoi occhi si fermarono sul pianeta, una fessura si aprì tra le sue sottili labbra. Le migliaia di sfumature di blu dell’acqua erano scomparse, rimpiazzate da un tetro grigiore. I continenti, che andavano dal verde più intenso al marrone chiaro, non offrivano altro che grigio. 

Aleri provò a pulire il suo finestrino, come se potesse essere un difetto del vetro e non dell’intero pianeta. I colori, dove erano finiti? I colori che aveva solo potuto sognare, scomparsi. 

Dovette controllare le carte galattiche prima di riuscire a convincersi di essere sul pianeta giusto. Ma non poteva essere. Casa sua, così bella e colorata, ridotta ad un amorfo ammasso di grigio.

Disattivò la guida automatica verso il sito di atterraggio del pianeta, cambiando la meta per la campagna in cui era cresciuta. Iniziava a credere che nessuno avrebbe denunciato il suo atterraggio non autorizzato, perché dubitava che un pianeta del genere potesse ancora essere abitato. 

La sua navicella scese fino alla superficie, trapassando l’atmosfera come un spillo lasciato cadere in acqua. Ormai aveva sorvolato centinaia di metri, ma non c’era traccia di colore. Aleri arrestò l’astronave, che faticava a rallentare, come se non volesse rimanere in quel luogo. 

L’irrazionale speranza che mettendo piede sul terreno tutti i colori sarebbero sbocciati davanti a lei si fece strada in lei mentre apriva lo sportello. Magari anni e anni di lontananza le avevano tolto la capacità di discernere le sfumature che aveva tanto amato. Non aveva senso, eppure… i colori dovevano esserci.

Ma la speranza di frantumò, come il più fragile dei cristalli, non appena il suo piede affondò nella terra, granulosa e morbida, troppo simile a sabbia. La sua pelle rugosa sembrava di un rosa acceso in contrasto con il grigio. Si guardò intorno, ma anche il cielo aveva perso la sua tinta celeste. 

La casa in cui era nata doveva essere poco lontano se la memoria non la ingannava. Dovette sforzarsi per riconoscere la collina che scalava con sua madre per prendere i fiori. Era sempre così luminosa, costellata di petali rossi che ondeggiavano nel vento, ma adesso era arida. Riconobbe dopo molto il grande albero sotto cui suo padre dormiva nelle giornate estive. Le sue fronde erano così variopinte. Le gemme rosa della primavera si susseguivano ai rossi accesi dell’autunno in un ciclo magnifico. Quante volte, durante i suoi viaggi, aveva pensato di tornare ai piedi del suo tronco nodoso e di riposarsi lì. Ma ora non era altro che rami contorti color della cenere.

Il suolo aveva una consistenza innaturale sotto i suoi piedi, ma si costrinse a procedere, resistendo alla tentazione di tornare sulla sua navicella e scappare via, dimenticandosi di quello che aveva visto per vivere nel nostalgico ricordo di casa. Pochi metri e la modesta abitazione della sua infanzia sarebbe apparsa, insieme al paese che l’aveva cullata fino alla maggiore età.

Pochi metri e… nulla. Case su case desolate, solo rovine in disuso senza colore. Ricordava le facciate dei palazzi della via principale, piene di crepe ma anche di vita. Rosa, celeste, giallo, la tavolozza di un artista fin troppo vivace. Ma adesso le crepe sulle mura erano striature nere su una superficie pallida. 

“No, non può essere. Come è successo tutto questo?” Aleri non si fermò, anche se le sue gambe iniziavano ad essere doloranti, supplicandola di tornare indietro prima di una delusione ancora più grande. 

Ma Aleri doveva capire cosa fosse successo alla sua casa. Il senso di colpa la stava dilaniando dall’interno, come se la sua assenza fosse stata la causa di questa distruzione. Non poteva accettare che tutto il colore fosse scomparso dal mondo, e con esso ogni forma di vita. 

A pochi kilometri c’era una città, l’avrebbe raggiunta. Doveva pur esserci qualcuno. Almeno una persona che potesse darle una spiegazione, per quanto dolorosa e tremenda.

I suoi passi si fecero più veloci, il bisogno di una risposta più forte delle difficoltà dell’età. Il pigro ronzio degli insetti le dava una speranza che ci fosse ancora un briciolo di vita. Nella lontananza riusciva a sentire un vago nitrito, ma era troppo terrorizzata di trovare un essere vivente spogliato del colore per cercare la fonte del suono. Scacciò il ricordo del manto a chiazze del cavallo che cavalcava da giovane, sostituendolo con quello della sua meta. Era una squallida città, una foresta di cemento e tetri mattoni. L’aveva sempre odiata, con l’austerità delle sue vie e il pallore di ogni luogo.

Il sole era ormai calato sull’orizzonte, ma il cielo non si tinse dei fiammanti arancioni del tramonto. Aleri deglutì. Pochi passi e avrebbe solcato la collina dietro cui si nascondeva la città che cercava. 

Una volta giunta sulla cima della collina, il suo cuore saltò un battito. Qualcosa in lei le diceva che avrebbe trovato solo rovine, che qualche cataclisma aveva distrutto tutto e lasciato un oceano di grigio. Ma davanti a lei torreggiava la città che cercava, irriconoscibile dal ricordo che aveva di essa.

Migliaia di grattacieli trafiggevano il cielo, brillanti e splendenti. Non una finestra aveva lo stesso colore di quella adiacente. Centinaia di colori luccicavano ovunque. Anche le nuvole variavano dal rosa più timido all’arancione più focoso. Ed il cielo era di un celeste brillante, venato di tutte le sfumature del tramonto, che diluiva nel grigio a cui Aleri aveva assistito fino ad ora. Luci di ogni sfumatura illuminavano la città. Ologrammi fluttuavano tra i mastodontici palazzi, mentre macchine voltanti, che sembravano essere state immerse in arcobaleni, serpeggiavano tra i grattacieli. 

I colori non erano scomparsi. I colori erano stati rubati. Aleri allora comprese di nuovo cos’era stato a spingerla a fuggire dalla sua casa. No, casa non era più la parola adatta. Dalla Terra, questo pianeta desolato. Era stata l’ingordigia degli uomini e il loro vizio di rubare la bellezza da ogni cosa per tenerla per sé, accumularla senza fine, ignorando tutto ciò che li circonda. Era stato il fragile ego degli umani che voleva prevalere su tutto, dimostrando di essere migliore di ogni altra cosa. 

Aleri si girò verso la strada che aveva appena percorso, per tornare alla sua navicella. Le lacrime di un sogno infranto colarono lungo le sue guance. Sarebbe partita immediatamente e mai più tornata. Perché l’umanità aveva derubato il mondo fino all’ultima goccia e non aveva intenzione di smettere. E se non era ancora stata punita per il suo crimine, lo sarebbe stata presto.

Michel Costantini 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Michel Costantini

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