Mai fidarsi della notte
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- Categoria: I racconti di Michel
- Pubblicato: Martedì, 28 Febbraio 2023 13:47
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Mai fidarsi della notte
Mi avevano avvertita di come il diavolo potesse indossare migliaia di maschere. Mi avevano raccontato ogni suo crudele misfatto. Di come aveva ridotto il nostro borgo alla fame, di come godeva nel vederci soffrire. Di come le sue venute erano numerose e frequenti, le sue tentazioni irresistibili e onnipresenti. Ma la mia anima si era macchiata già di un peccato troppo grande per riconoscere il diavolo. La speranza è un vizio subdolo, acceca anche i più fedeli. E l’unica cosa che mi teneva ancora in vita in quello squallido borgo era proprio la speranza.
Era l’alba dei miei diciannove anni quando per la prima mi fu permesso di lasciare la mia abitazione di notte. Non sapevo nemmeno cosa fosse la luna fino a quel momento. Un disco bianco che fluttuava nel cielo era impensabile tanto quanto tutte le bestie delle terre d’oriente. Ma l’inverno era freddo, la legna era stata consumata da fiamme mai abbastanza calde. Mio padre era malato, mia madre sull’orlo di perire insieme a lui, ero l’unica in grado di uscire a prenderne dell’altra.
Giunsi di fronte alla porta d’ingresso. Le finestre serrate per evitare che le ombre strisciassero in casa erano scosse da un vento violento, un’orchestra senza armonia che accompagnava questa mia impensabile impresa. I crocifissi inchiodati agli stipiti tremavano, per il gelo o la paura? Se la forza del grande padre fremeva, allora anche io sarei dovuta essere spaventata. Ma nel mio cuore pulsava solo trepidazione. Cos’era la notte? Perché il grande padre avrebbe dovuto crearla se era solo la manifestazione del regno dei demoni? La sua generosità immensa non avrebbe mai plasmato un dono così malvagio.
Non avevo paura, no. Non desideravo altro che uscire da quella porta e scoprire cosa si celava dietro quel tremolante legno.
Toccai per la prima nella mia vita il catenaccio che ci avrebbe dovuto proteggere da qualsiasi creatura maligna si aggirasse fuori dall’uscio. Il ferro gelido trafisse il mio palmo con un brivido. Tre rumorosi giri di chiave e il velo tra la notte e la sicurezza della mia abitazione fu squarciato.
Il mio piede sprofondò nella neve che da poco si era posata. La fiamma della mia lanterna si rifletteva su quel sottile strato di bianco che ricopriva la strada verso la catasta di legna. Da cristalli candidi, la fiamma li trasformava in frammenti di rubino.
Non avevo mai visto tenebre così scure, a malapena scacciate dalla mia lanterna. Ma non furono le tenebre a catturare il mio sguardo. Il cielo rapì i miei occhi, che non potei più chiamare realmente miei dopo quella visione. Non avevo mai visto l’oceano, eppure ero sicura che dovesse essere così. Infinito, costellato da miliardi di punti di luce, aggregati in onde e nubi e vortici e reti. Erano diamanti ricamati sopra la seta più nera, un intricato pizzo che faceva da merletto all’opale più grande e bello che potesse mai esistere. Il sole era accecante, impossibile da fissare, ma la luna, luminosa e stupenda com’era, era fatta per essere ammirata. La sua bellezza era un dono da contemplare, un faro fatto per guidare gli uomini.
Come poteva questo essere il regno dei demoni? Il grande padre non avrebbe mai creato qualcosa di tanto magnifico per poi costringere i suoi figli a rintanarsi nelle loro tane come roditori invece che rimirare il suo dipinto di luci e ombre.
Il vento graffiava la mia pelle mentre camminavo, lentamente, pur di allungare questo istante di libertà. Presi tutta la legna che ero in grado di portare con me e mi voltai verso casa, già rimpiangendo la notte che non avrei mai più rivisto.
Avevo già afferrato la maniglia della porta quando un tocco gelido sfiorò la mia nuca. Non poteva essere vento, era troppo tangibile e solido, come il bacio di una scheggia di ghiaccio. Mi voltai di scatto dietro di me, ma tutto era vuoto. Nessuna impronta accompagnava le mie sulla neve, nessuna figura si allontanava in corsa. Mi convinsi che fosse solo una foglia trasportata dal vento.
Quella notte sognai di fuggire dal mio borgo, dalle sue chiese che trafiggevano il cielo come spilli e dalle sue mura diroccate. Correvo sotto un notturno oceano di luce, allontanandomi sempre di più dalla mia prigione. Ma non ero sola, sentivo degli zoccoli galoppare dietro di me. Non potevo capire se mi stessero inseguendo o se stessero fuggendo con me. Non potevo girarmi, come per paura che se l’avessi fatto il borgo mi avrebbe catturata di nuovo.
Il giorno dopo uscii ancora. La legna era nuovamente terminata, l’inverno sempre più freddo. Successe ancora, e ancora, e ancora. Ero sicura di portare dentro casa abbastanza legna per tenere al caldo i miei genitori malati, ma continuava a consumarsi in meri minuti, come se le fiamme bruciassero sempre più ingorde.
Più uscivo nella notte, meno comprendevo di cosa fossero tanto terrorizzati i sacerdoti del borgo. Le loro infinite messe sulla malvagità dei demoni e dei loro crimini mi sembravano deliri ormai. Ero uscita nelle tenebre ormai decine di volte e mai una qualche creatura si era avvicinata a me, nemmeno un gufo in cerca di prede. La notte non era il caotico dominio del male, ma una placida nenia che il grande padre rivolgeva a tutto il suo creato.
Iniziai a vivere le ore di sole nell’attesa di uscire, di farmi inondare dalla luce delle stelle e accarezzare dal pallore della luna. Avevo anche aperto una sottile fessura nella finestra della mia camera per lasciare un flebile raggio di luna sfiorarmi gli occhi mentre dormivo.
Il borgo era la mia prigione di giorno, i sacerdoti i miei aguzzini e le loro preghiere la mia pena. Ma di notte tutto era diverso, il mondo apparteneva a me per alcuni brevi ma stupendi attimi. Non potevo abbandonare il borgo e i miei genitori, ma questo mio segreto, che mi avrebbe fatto rinchiudere da ogni sacerdote, mi dava abbastanza speranza per continuare a sopportare la squallida monotonia delle mie giornate.
Finché un giorno, la notte mi regalò una soluzione alla noia e al dolore. Si manifestò con un rantolo proveniente da dietro la catasta della legna, che ormai minacciava di finire, lasciando me e la mia famiglia al gelo. Avrei dovuto ignorarlo, considerarlo un animale ferito che non avrei potuto in alcun modo salvare, ma decisi di svelare la fonte di questo insistente suono.
Non era un animale, ma un uomo. Sangue caldo scorreva come un torrente da una ferita sul suo polpaccio, che tamponava inutilmente con un pezzo del suo sudicio mantello. Sgomenta, pensai di abbandonarlo lì. Sarebbe potuto essere un brigante, o peggio, ma se al mio risveglio l’avessi trovato dietro la catasta, senza vita o per il freddo o per la perdita di sangue, questo momento mi avrebbe perseguitato per il resto dei miei giorni.
Mi tenni lontana, stringendo saldo il pezzo di legno che mi sembrava più duro. “Chi sei?”
Lo sconosciuto digrignò i denti e aspirò. Anche nella sua smorfia di dolore, i lineamenti del suo volto erano incantevoli, perfetti come quelli degli angeli che adornavano l’ingresso della chiesa. Una chioma nera come lo spazio tra le stelle cadeva in riccioli di fronte ai suoi occhi del colore degli aghi di pino. “Sono un cacciatore. Un cinghiale mi ha ferito. Ti prego, nel nome di tutto ciò che esiste di buono, aiutami.”
Esitai per un momento prima di chinarmi e aiutarlo a trascinarsi verso la capanna di mio padre, dove nessuno entrava da mesi. Non so cosa mi spinse a offrirgli le mie cure. Forse era l’incanto della notte, che mi aveva offerto una creatura tanto bella di cui prendermi cura in cambio della mia continua contemplazione del suo paesaggio.
Accesi un piccolo fuoco nella capanna e cinsi la sua ferita con un panno pulito. Non dissi alcuna parola, limitandomi ad agire più in fretta possibile. Era un uomo sconosciuto e, anche se non credevo più nelle superstizioni dei sacerdoti e nei loro mostri notturni, gli uomini erano sempre un pericolo per le ragazze come me. Un caritatevole aiuto poteva divenire tutt’altro nei loro occhi. E anche se i suoi mi guardavano con una gentilezza che mai mi era stata concessa, sapevo bene di non fidarmi di un mero sguardo.
Aspettai la notte successiva prima di fare di nuovo visita alla capanna. Parte di me sperava che il cacciatore si fosse dileguato, l’altra aveva preparato un brodo caldo da offrirgli in cambio di mille domande su quel volto straniero, che forse aveva visto le terre oltre le mura del borgo.
Il cacciatore era ancora lì, rannicchiato nel suo mantello vicino alle braci ardenti del fuoco che strenuamente resisteva. Il suo tremore mi mosse a pietà e aggiunsi dei bastoni nuovi tra le ceneri per ravvivare la fiamma.
Lo osservai mangiare il mio brodo con curiosità, quasi desiderando di sentire la sua voce pronunciare un ringraziamento.
Quando finì, raschiando con il cucchiaio i bordi della ciotola, inchinò la sua testa congiungendo le mani sopra di essa quasi in preghiera. “Grazie, che tu venga benedetta dal grande padre.”
Quei suoi occhi imploranti mi strinsero lo stomaco in una morsa bizzarra. In quel momento sarei dovuta tornare in casa, anzi, cacciarlo dalla capanna per aver già superato i minimi obblighi di ospitalità voluti dal grande padre. Invece mi inchinai di fronte a lui, pupille sgranate dalla curiosità.
Il cacciatore mi guardò quasi esterrefatto, tenendo la testa china ma fissandomi intensamente con quelle iridi come ghirlande di pino.
“Il tuo volto mi è sconosciuto, come sei giunto in questo borgo?” Il mio tono era freddo come la notte da cui l’avevo salvato, ma la speranza fiammeggiava nella mia domanda. Non potevo fuggire dal borgo, ma sentire storie provenienti da oltre i suoi confini era già una minima libertà.
“Il mio villaggio a poche miglia da qui è stato colpito dalla fame. I boschi scarseggiano di selvaggina e mi sono addentrato in quelli del vostro borgo. Ma i cinghiali qui sono più feroci e mi hanno ferito. La tua casa è stata la prima che ho incontrato.”
“Hai visitato molti altri villaggi?” Era una domanda sciocca, ma non sapevo quando avrei incontrato un altro straniero. Il borgo non ammetteva forestieri: sarebbero potuti essere infedeli portatori di demoni.
Le sue labbra si schiusero in un’espressione interdetta. “Moltissimi,” rispose dopo una breve pausa.
Fissai lo straccio che avevo legato alla sua gamba, intriso di sangue. Un’idea balenò nella mia testa, espressa prima ancora che potessi ragionarci e comprendere la sua assurdità. “Raccontami delle terre che hai solcato ed io cambierò le tue bende.”
Iniziò a parlare del mare che bagnava le coste meridionali e io mantenni la mia parola. Mentre pulivo la sua ferita che iniziava a formare una crosta, le mie orecchie si riempivano di descrizioni inaudite, tanto dettagliate da dipingere i paesaggi di fronte ai miei occhi. Mentre passava dalla sabbia alle onde, dalle scogliere ai porti, dall’orizzonte senza fine ai pesci, una inaspettata pressione sulla carne viva lo faceva gemere lievemente.
Incantata, non mi accorsi di aver terminato di legare le sue bende e di star continuando ad ascoltare ammaliata il suo racconto. Veramente il sole si rifletteva sull’acqua in maniera ancora più bella che sulla neve? Veramente esistevano uccelli bianchi dal becco arancione che pescavano proprio come fanno gli uomini?
Una volta tornata in me, mi alzai e feci per andarmene senza salutarlo. Quella domanda era stata un errore, mai dare fiducia ai forestieri.
Ormai sull’uscio, il cacciatore mi domandò: “Posso almeno conoscere il nome della mia salvatrice?”
“Solo in cambio del tuo.”
“Silas,” sussurrò, il suono sibilante come il verso di un serpente.
“Ginevra. Ed ora addio, che il grande padre ti conceda un sonno sereno.” Chiusi la porta alle mie spalle e il tonfo riecheggiò nel mio petto, l’eco a ritmo con il mio cuore palpitante.
Tornai nuovamente il giorno successivo, sostituendo le sue bende in cambio della descrizione delle montagne, dove aquile grandi come draghi sorvegliano dall’alto il loro regno celeste. E il giorno dopo ancora, in cui scoprii come nel cuore più profondo della foresta si celano fiori gialli come il miele e altrettanto profumati.
Tornai finché la sua ferita non fu totalmente rimarginata, una pallida cicatrice sulla sua pelle olivastra. E poi ancora, ma stavolta con un altro accordo. Lui avrebbe tagliato nuova legna per sostenere il nostro camino ed io gli avrei portato un pasto caldo ogni notte.
Di giorno scompariva nei boschi e non importava quanto tardi lo aspettassi sul sentiero di ritorno, non riuscivo mai a vederlo. Lo incontravo sempre e solo in quella capanna abbandonata da tutti tranne che da noi, quando il buio della notte ricopriva il mondo con la sua coltre di tenebre.
E ogni notte, una storia diversa mi portava per poche ore lontano da questo borgo maledetto dai sacerdoti e dalle loro paure infondate.
L’inverno stava per volgere al termine, la neve sempre più rada e i primi fili d’erba come vispi spilli in mezzo al candore. Ma l’unica cosa a cui pensavo era a un altro accordo per tenere Silas con me. Non potevo vivere senza le sue storie, senza il calore immenso dei suoi occhi, senza la gentilezza delle sue mani, un ossimoro con i suoi calli da cacciatore e taglialegna. I miei sogni erano colmi del suo volto, i miei pensieri rivolti solo al suo tocco. Ma quando finalmente giunsi alla capanna con la proposta di un nuovo accordo per l’incombente primavera, non lo trovai.
Per mesi era sempre stato nel solito punto, ma non quel giorno. La polvere sul pavimento aveva la forma del suo mantello vicino alle scarne fiamme che lottavano per sopravvivere nella brezza serale. Non riuscivo ad accettare che potesse essere fuggito o ritornato al suo villaggio. Non aveva alcun senso. Doveva essere successo qualcosa nel bosco, ne ero certa. Un cinghiale lo aveva portato da me e ora il bosco me lo avrebbe strappato. Un equilibrio che non ero pronta ad accettare. Se fosse stata questa la provvidenza del grande padre, allora avrei sfidato le sue divine leggi pur di riportare Silas da me.
Corsi sul sentiero verso il bosco, percorrendo le grandi impronte di pesanti scarponi che tracciavano una linea solo di andata. Era pericoloso, probabilmente letale. Non mi ero mai avventurata nella foresta, specialmente di notte. Ma se c’era ancora una sola, minuscola possibilità di salvarlo, allora non potevo abbandonarla.
La notte non mi accompagnava più. Le stelle erano scomparse dietro le fronde degli alberi, la luna ridotta a frammenti confusi tra rarissimi buchi in quella tela di rami e foglie sempreverdi. Questo sembrava davvero il regno dei demoni descritto dai sacerdoti, privo di bellezza, di armonia. Radici minacciavano il mio cammino, rumori sinistri mi facevano sussultare ad ogni passo. La mia gonna rimaneva incastrata in rovi e arbusti, come mani pronte a ghermirmi.
Una luce apparve in lontananza. Era di un viola innaturale, il colore di bacche marcite e calpestate. Più correvo verso di essa, più si ingrandiva, assumendo tutte le sfumature dall’ametista all’indaco, dal cobalto allo zaffiro. Fino a quando, ansimante e con i piedi doloranti per il sentiero irregolare, non mi ritrovai di fronte a una chiesa. Era piccola come un eremo sperduto, crocifissi di pietra rovinati a terra di fronte al suo ingresso. Le vetrate violacee emettevano una luce ondeggiante. Le figure di donne delineate dal ferro nero sembravano fuoriuscire dal vetro con riflessi bluastri.
Non ero a conoscenza dell’esistenza di questa chiesa, ma forse Silas si era rifugiato qui dopo essere stato ferito. Spinsi con una spalla le mastodontiche porte, che strusciarono contro il pavimento in pietra con uno stridore simile a un grido.
In fondo alla piccola stanza, ai piedi di un altare venato da profonde crepe, torreggiava Silas, che contemplava le tre vetrate centrali dell’abside, le uniche prive di donne, costituite invece da disegni geometrici.
“Sei ferito? Perché non sei tornato?” domandai. La mia voce combatteva con la mancanza di fiato, stridula e flebile.
Silas si girò, un sorriso ampio sulla sua stupenda faccia. Era illeso, anzi, più energico di quanto lo avessi mai visto. “Mi hai trovato, Ginevra. Hai avuto il coraggio di attraversare l’intero bosco pur di cercare me.” La sua voce era incrinata da un tono acre che mai avevo sentito uscire dalle sue labbra. “Devi amarmi davvero,” disse, quasi divertito dalla sua affermazione.
“Ma certo che ti amo. Non riuscivo a credere di non vederti più. Ti prego, ora andiamo, non mi piace questo posto.” Rabbrividii, gli sguardi delle fanciulle puntati tutti contro di me. Non riuscivo a comprendere se in accusa o preoccupazione.
Silas si avvicinò a me con passo quasi felino, una pantera che corteggiava la sua preda. Afferrò la mia mano e cinse il mio bacino, il suo sorriso si trasformò in qualcosa di diverso, qualcosa di perverso.
“Cosa stai facendo, Silas? Torniamo indietro, ti prego.” La sua presa si fece più forte, la gentilezza che lo aveva contraddistinto totalmente scomparsa. “Mi stai facendo male, lasciami.” Cercai di dimenarmi via, ma ero immobile tra le sue braccia. Mentre un gemito di dolore fuggiva dalla mia bocca, voci femminili iniziarono a cantare, un coro solenne e terribile e magnifico. Una melodia tanto forte da scavare le mie orecchie.
“Perché dovrei? Non senti questa musica? Non vuoi danzare?” Mosse il suo piede verso destra e i miei seguirono i suoi.
Non volevo danzare, volevo tornare a casa in quella capanna a sentire le sue storie. Questo non poteva essere Silas, non potevo crederlo. Ma i miei piedi si muovevano contro la mia volontà.
Le voci si facevano più sonore, più incalzanti. Armonia trasformata in grido trasformata in una marcia funebre. Sembrava che le vetrate stesse cantassero, bocche di vetro mosse da una forza sovrannaturale.
Silas appoggiò la sua bocca sulla mia nuca, baciando un punto che risvegliò un brivido che mi aveva già percorsa una volta. “Ricordi il nostro primo bacio?”
Amara bile si fece strada nella mia gola mentre le parole dei sacerdoti del borgo riecheggiavano nelle mie orecchie, lottando con l’assordante canto che pervadeva la stanza. Il diavolo indossa mille maschere. La notte è il regno dei demoni, tutto ciò che accade nelle sue tenebre sfugge alla benevolenza del grande padre. Il diavolo gode del nostro dolore, inganna e tormenta, promette gloria e piacere e consegna agonia. E il diavolo aveva vinto il mio amore.
Aprii gli occhi, offuscati dalle lacrime, ma ancora in grado di discernere il mostro che danzava con me. Corna tortili fuoriuscivano dalla chioma riccia dell’essere che avevo chiamato Silas, rettangolari pupille caprine si allargavano nelle sue iridi verdi, folta pelliccia ricopriva la gamba che avevo medicato con tanta cura. Adesso danzavo al ritmo dei suoi zoccoli, che intervallava regolarmente il canto delle donne.
Non potevo fermarmi. Il mio corpo era suo, avrei danzato fino alla morte se così fosse stato il suo volere. L’unica mia ribellione alla sua volontà erano le lacrime che grondavano dai miei occhi imploranti. “Ti prego, ti prego, lasciami andare.”
“Ma certo, mia amata.” Il diavolo sorrise, svelando le sue zanne gialle. Mi scagliò contro la vetrata centrale, tenendomi schiacciata ad essa per il collo. “Ginevra, ricorderò il tuo nome per sempre nella mia collezione.”
Incapace di respirare, i miei singhiozzi rubavano anche il poco respiro che conservavano i miei polmoni. Avevo ignorato gli avvertimenti dei sacerdoti. La notte mi aveva ingannato. La notte non era una bellezza da contemplare, era una bugia da cui proteggersi. E ora il diavolo aveva il mio cuore e la mia vita nel suo pugno.
Il diavolo sollevò la mano libera, acuminati artigli di vetro lilla come uncini sulla punta delle sue dita deformi. Incise un lungo graffio sul mio petto, sussurrando parole dissonanti con il canto che ancora infuriava intorno a me. Lasciò la presa sul mio collo, mentre il mio cuore si trasformava in vetro.
Vetro e ferro si espansero sul mio corpo, schiacciandomi dentro la vetrata. I disegni geometrici dietro di me mi facevano spazio, mentre il diavolo osservava compiaciuto la sua opera d’arte in metamorfosi. Divenni sottile come la neve che calpestai la prima volta che vidi la notte. Viola e blu e celeste tinsero le mie vesti e la mia pelle, forme irregolari delineate da nero ferro.
Il diavolo baciò il vetro viola che aveva sostituito la mia bocca. “Benvenuta, Ginevra.”
Guardo il diavolo dritto negli occhi mentre attende la sua prossima vittima nella sua chiesa sconsacrata. Sa che lo guardo, e lui guarda me. Il ricordo del suo ultimo delitto è ancora fresco, così come il mio rancore. Vorrei poter urlare e spaccare questa prigione di vetro, ma questa è la mia nuova eternità.
Le porte della chiesa si aprono stridenti e una ragazza entra affannata. È giovane come me, innocente come me, illusa come me. Destinata a un destino peggiore della morte, come lo sono stata io.
Il diavolo si incammina verso di lei e una lacrima indaco si fa spazio al lato del mio occhio, appena contornata da una sottile riga nera.
Un lugubre canto è strappato dal mio petto, rimbomba nello spazio dove un tempo batteva il mio cuore rubato.
Michel Costantini