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Il banchetto d'inverno

Il banchetto d’inverno

 

Non ho mai creduto alle storie che mi raccontava mia madre, ma le ricordo bene. Mi teneva stretto in braccio sotto una lacera coperta, mentre nel camino non brillava nemmeno più una scintilla. Più tremavo, più mi stringeva, ma quello che mi teneva veramente al caldo era il suo respiro sulla mia testa mentre narrava i suoi miti e le sue leggende. Odiavo quelle storie, ma non avevo il coraggio di dirglielo. Fate e fauni che vivevano nei boschi e accoglievano i passanti nelle loro danze e mille altre storie senza senso spesso sostituivano la mia cena. Ma non ho mai avuto fame di storie, né tantomeno di falsità. Quando si cresce sotto la continua minaccia della guerra, si impara presto a dimenticare la fantasia e l’incanto, ma mia madre sembrava non capirlo. Lei continuava a raccontare, ogni giorno una nuova, come se le parole potessero sfamarmi più di una qualsiasi radice. Io la sentivo, ma non la guardavo, perché i miei occhi erano sempre puntati alla porta. Non sapevo quale dio pregare affinché mio padre tornasse sano e salvo, perché se qualcuno di quegli esseri si fosse mai degnato di dare ascolto anche ad una singola preghiera, non esisterebbe tutta questa sofferenza. Ma io fissavo la porta e speravo che si aprisse. Non mi interessava cosa mio padre portasse, se un cervo o un topo, o anche nulla, mi importava solo che tornasse. Forse mia madre sperava che raccontandomi delle creature dei boschi potessi trascurare la verità. Ma le uniche storie a cui credevo erano quelle di lupi famelici e banditi spietati che infestavano i boschi. Loro esistevano, perché i padri dei miei amici non erano mai tornati a casa a causa loro. E se fate e fauni fossero esistiti, perché non salvavano gli innocenti che cercavano solo cibo per le loro famiglie? Veritiere o no, quelle storie erano inutili.

E mentre cammino in questo bosco, mi domando se mia moglie stia raccontando le stesse storie a mia figlia. So che le parole non saranno mai abbastanza per sfamarle e sono ormai due giorni che non porto una preda a casa. L’inverno è alle porte e gli animali sono più scarsi che mai. Oggi non posso tornare a mani vuote. Stringo più forte la mia balestra e mi concentro su ogni cespuglio, sperando di trovare almeno un coniglio. Secondo quanto diceva mia madre, la notte del solstizio d’inverno era il momento più magico dell’anno, in cui i mondi convergevano e le creature fatate sfilavano tra gli alberi tra danze e musica. Ormai solo alcuni flebili raggi di luce oscillano nell’aria, proiettando tetre ombre di rami privi di fronde, ma non c’è né musica né selvaggina. Forse tutti gli animali hanno deciso di partecipare alla festa e lasciare questa parte del bosco vuota. Il solo pensiero fa curvare la mia bocca in un sorrisetto.

Mentre procedo, attento a non fare un singolo rumore con i miei scarponi sulle foglie secche, mi guardo intorno, maledicendo la luce che lentamente lascia l’orizzonte. Rimanere nei boschi di notte è pericoloso, con tutti gli avvistamenti di lupi che ci sono stati recentemente dovrei tornare indietro immediatamente, ma non posso. Se non porto di nuovo nulla, la mia famiglia morirà di fame. Non posso fare questo alla mia amata figlia. Lei prova a nasconderlo, prova ad essere forte, ma vedo come fatica a rimanere in piedi. Vedo la preoccupazione negli occhi di mia moglie e le fosse che ha al posto delle guance. Almeno ieri ero riuscito a portare della legna, ma oggi non ho nemmeno quella. Non posso tornare.

Il buio si fa ancora più fitto, mentre gli ultimi fasci di luce sono divorati dall’oscurità. Le stelle scintillano nel cielo, inutili spilli bianchi che non raggiungono il terreno. Tengo alta la balestra, pronto a sparare al suono di un ululato o di un ringhio. Questi dannati lupi, chissà quanti cervi hanno cacciato togliendoli alla povera gente del villaggio.

Sono minuti che cammino, mi sto spingendo troppo in fondo. Mi giro indietro e non vedo più un barlume di luce proveniente dal villaggio. Forse sarebbe meglio tornare, ora che sono ancora in grado di riconoscere la strada. Coglierò delle radici sulla strada di ritorno, se la fortuna è dalla mia parte magari riuscirò anche a trovare un animale non nascosto nella propria tana. Le mie amate possono resistere un altro giorno, a costo di dar loro le mie porzioni di cibo per il resto della settimana. Inizio a camminare sulla strada che ho appena percorso, il brullo sentiero indistinguibile dall’erba.

Appena il mio piede fa un passo in avanti, il tintinnio di una campanella mi pietrifica sul posto. Il mio corpo si arresta, i brividi corrono lungo la mia schiena. Nemmeno il più codardo degli uomini si lascerebbe spaventare tanto da un suono tale. Ho passato tante notti nei boschi, perché proprio ora la paura mi assale? Mi costringo a voltare lo sguardo, anche se il mio collo sembra rigido come un tronco.

Un bagliore mi acceca e mille tintinnii rimbombano tutto intorno a me. Cosa sta succedendo? Anche se la luce sembra essere diminuita, non apro gli occhi, paralizzato dallo stupore. I ricordi delle storie di mia madre mi assalgono tutti insieme. “Ogni anno, nella notte più lunga di dicembre, le fate danno il benvenuto all’inverno con una splendida danza, accompagnate dalla musica dei fauni…”

Ma cosa sto dicendo? Erano solo bugie dette per tranquillizzarmi, non sono vere. Allora perché non riesco ad aprire gli occhi? Deve essere stato un lampo improvviso, non si spiegherebbe una luce tanto candida.

Il suono di flauti riempie le mie orecchie, deglutisco, esterrefatto. Riesco a immaginare le corna smussate tra i riccioli castani di fauni panciuti, che saltellano tra l’erba gelida con le loro zampe caprine. Così li descriveva mia madre, con le sue parole incapaci di sfamarmi nonostante la loro dolcezza superiore a quella del miele.

Non apro gli occhi, la paura ha ancora controllo su di me. Ma perché ho paura? Se mia madre aveva ragione, allora dovrebbero esserci fate dalla diafana pelle e i capelli dei più bei colori, ninfe leggiadre con iridescenti vestiti di squame, animali di ogni specie, resi brillanti e pacifici da questa eterea musica. Allora perché tremo? Perché sento di dover scappare come il cervo che pur non vedendo il cacciatore avverte la sua presenza?

Perché l’istinto va oltre le apparenze e le fantasticherie, direbbe mio padre. Le mie palpebre si spalancano e la balestra scivola dalle mie mani. Mia madre mentiva. Non sulla loro esistenza, ma su tutto il resto, ignara della loro vera natura.

Indietreggio, mentre i miei occhi si abituano alla luce e riesco a scrutare meglio l’orrore davanti a me. Una pozza di sangue si estende tra l’erba, giungendo fino ai miei piedi come delicate onde sulla spiaggia. Tra gli alberi si erge una montagna di carcasse, le mosche come fiocchi di neve nella luce. Cervi, conigli, addirittura lupi, ammassati l’uno sull’altro, gli occhi vitrei puntati al vuoto, gli arti molli come fronde cariche di neve. E tutto intorno, le creature che mia madre descriveva come tanto belle e graziose. Le loro mani affondano nella carne e la strappano. I loro bellissimi volti sono sporchi di sangue mentre masticano le loro prede con un tale piacere da essere simile alla voluttà. Le ninfe divorano le bestie più in basso, i loro corpi d’acqua intrisi di vortici vermigli. Le fate con le loro ali si cibano di quelli più in alto. I fauni accompagnano questo banchetto proibito in attesa del loro turno.

Ecco perché erano giorni che non si trovavano animali nei boschi. Ecco perché non ho mai sentito un silenzio tanto oscuro durante la mia caccia.

Faccio un passo indietro e le foglie scricchiolano sotto le suole delle mie scarpe. Una fata si gira di scatto, un pezzo di cartilagine cade dal suo mento. I suoi capelli rosa le incorniciano il volto, striati di schizzi di sangue. Sorride con i suoi denti oscurati dal rosso e strappa via la costola da un cervo. Volteggiando con le sue ali sottili come veli, si abbassa al suolo porgendomi la costola circondata da carne.

Voglio fuggire, ma i miei piedi sembrano incollati al sangue. Lei fa un passo avanti, quasi saltellante per la tanta gioia. Dietro di lei, una ninfa affonda i suoi denti in un cuore, la sua chioma liquida brilla mentre emette un soddisfatto verso di apprezzamento. La fata mi guarda, le mani protese verso di me. “Sono tutti benvenuti al banchetto d’inverno.”

La costola sembra così saporita. Ricordo cosa diceva mia madre, che non bisognava mai rifiutare il volere di una fata. La mia mano tremante si stringe intorno alla costola. “Grazie,” balbetto.

Provo ad allontanarmi, ma la fata non lascia andare la sua presa. “Non è cortese per un ospite mangiare lontano dai suoi commensali.” Stacca un pezzetto di carne e lo avvicina alla mia bocca.

Lo preme sulle mie labbra, una goccia di sangue cola sul mio mento, ma apro la mia bocca. Mastico a fatica la carne cruda e deglutisco con forza.

“Bravo, forza unisciti a noi prima che questi ingordi finiscano tutto.” La sua risata è come un soave cinguettio. Mi prende per il braccio e mi fa camminare fino alla montagna di carcasse.

Due ninfe mi fanno spazio, una sorridendo, mentre l’altra è troppo impegnata a scavare nelle interiora di un coniglio. La fata si libra nell’aria, tornando al cervo da cui aveva preso la costola.

La paura di essere divorato a mia volta mi spinge a prendere un altro boccone. Masticare la carne cruda è disgustoso. Ma ne prendo un altro. Non posso rifiutare la loro offerta. E un altro. Un altro. Un altro ancora. Più mangio e più ho fame. Divoro e provo un piacere così intenso che mi impedisce di smettere. Mangio ancora e ancora. I miei gemiti si uniscono al suono dei flauti e al rumore della carne strappata. Mangio come se potessi recuperare i decenni di fame e carestia. Mangio come se potessi sfamarmi per una vita intera. Passano i minuti e ho divorato conigli e assaggiato lupi e cervi. Il sangue ricopre il mio volto e corpo, i miei vestiti si appicciano alla mia pelle, ma il sangue caldo lotta contro il freddo pungente. Non credevo che le storie di mia madre mi avrebbero un giorno sfamato, eppure mi sbagliavo.

Ormai, non ci sono altro che ossa e un singolo coniglio ancora integro. La fata mi raggiunge. “Per la tua famiglia,” mi dice, lasciandomi il grasso coniglio tra le mani.

La ringrazio e mi allontano, mentre i primi raggi dell’alba trafiggono il cielo e le nuvole. Cammino sulla strada del ritorno, fissando il coniglio che ho in mano. Lo guardo e provo a reprimere il desiderio di affondare i miei denti nella carne. Il sangue inizia a raggrumarsi sui miei vestiti. Provo a distogliere il mio sguardo dalla preda che ho in mano, ma torna sempre lì. Il mio stomaco si contrae, supplicandomi di mangiarlo. Ore e ore di banchetto e non sono ancora sazio.

Ormai sono vicino alla mia casa, le mie unghie scavano nel coniglio mentre mi costringo a non mangiarlo. Mentre arranco verso casa, le storie di mia madre riaffiorano alla mia memoria. Le fate adorano farsi beffe degli umani. Illudono gli uomini con piaceri immensi, ma prendono qualcosa in cambio. “Ricorda, figlio mio, quando conosci il mondo delle fate per un giorno non potrai mai farne a meno,” diceva, ma io avevo più paura dei lupi e dei briganti per darle ascolto.

Ma ora, mentre i miei denti staccano la zampa del coniglio che dovevo conservare per mia figlia, capisco il mio errore. Lo divoro fino all’osso, in mezzo al bosco, il sangue coagulato amaro sulla mia lingua. Divoro il sostentamento della mia famiglia e non sono sazio. Non potrò mai più esserlo.

Mi guardo intorno, gli occhi iniettati di sangue. Cerco altre prede, ma non c’è nulla. E l’unica cosa che provo è la stretta allo stomaco di una interminabile, atroce, crudele fame.

 

Michel Costantini

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